00 30/01/2009 01:43
I NUOVI UNTORI
Gli esponenti più retrivi del cattolicesimo romano spesso tendono a considerare l'Aids come una sorta di castigo divino per omosessuali e drogati e per chiunque viva una sessualità disordinata, libertina. Costoro dovranno inoltre avere sulla coscienza il destino di tutti quelli che, senza colpa morale, sono rimasti contagiati a causa loro.
L'identificazione di malattia e colpa, del tutto estranea ai vangeli, è patrimonio di quella cultura veterotestamentaria che il cristianesimo, considerando la malattia come un'occasione per il manifestarsi della "grazia divina" (oggi diremmo della "creatività dell'uomo") e non più come un castigo o un'inspiegabile condanna, ha creduto di poter agevolmente superare. Perché dunque dimenticarsi, e da parte di alti esponenti ecclesiastici, di una verità da tempo acquisita dalla mentalità comune?
Il fatto è la chiesa ha bisogno di dimostrare che la "grazia di dio" c'è, altrimenti chi se ne accorgerebbe? Ovvero, quando non le riesce di dimostrarlo positivamente, attraverso le proprie "buone azioni", ha bisogno di farlo negativamente, accusando non se stessa, ma la società laica, che con i suoi "vizi" impedisce alla "grazia" di manifestarsi. E fa questo naturalmente con la pochezza degli strumenti interpretativi di cui dispone.
Essendo incapace di andare al di là di una pura e semplice ermeneutica moralistica e soggettivistica del fenomeno Aids, e sapendo bene che con gli interventi meramente caritativi o assistenzialistici non si risolvono i problemi sociali più di tanto (specie in una società complessa come quella borghese), l'omosessualità e la tossicodipendenza le diventano particolarmente comode per riaffermare la triste equazione di malattia e colpa, nonché l'unica alternativa possibile: l'astinenza sessuale nella fede cristiana.
Là dove non può affermarsi per meriti propri, la chiesa mira a farlo con i demeriti altrui. Lo schema è di tipo farisaico e lo si utilizza nei periodi di caduta della credibilità: ad ogni colpa un castigo, ad ogni castigo il tempo per non dimenticarlo; la sofferenza farà poi il resto e riavvicinerà il colpevole alla "grazia divina".
E pensare che persino gli ebrei, ad un certo punto, nel racconto del buon Giobbe, erano arrivati a mettere in dubbio la stretta identità di colpa e malattia. Per loro, così convinti dell'esistenza di Jahvè, pareva impensabile che si diventasse lebbrosi solo per una cieca fatalità: qualcosa si doveva pure aver fatto, foss'anche una colpa del parente più lontano. Jahvè non puniva forse sino alla settima generazione?
Giobbe tuttavia si convinceva poco di questi paralogismi. Lui si riteneva del tutto innocente, sapeva di non aver fatto nulla di così grave da meritarsi un castigo così grande come la lebbra. Gli fu facile, in questo senso, mandare a quel paese i tre saggi che si ostinavano a chiedergli l'esame di coscienza. E non volle nemmeno dar retta alla moglie che, vedendolo in quello stato, ancora timoroso di dio, gli aveva suggerito d'imprecarlo e di morire in pace. La sua risposta, che poi venne superpremiata dallo stesso Jahvè, fu tanto semplice quanto profonda: "Accetterò la lebbra come una prova da superare. Ho amato dio quand'ero ricco e sano, vediamo se ora ci riesco da povero e ammalato".
Consolazione forse un po' magra o un po' fatalistica, potrà pensare qualcuno. Ma si era duemillenniemezzo fa: che si pretende? Giobbe non poteva certo comportarsi come il fortunato lebbroso del vangelo di Marco che dubitò della necessità della prova, sapendo bene che il Gesù taumaturgo poteva guarirlo solo toccandolo con un dito!
Senonché, proprio come questo anonimo lebbroso non riuscì a capire che di fronte alla verità delle cose poco importa esser sani o ammalati, così oggi gli esponenti più retrivi del clero (che miracoli non ne possono fare e che in quelli della scienza non credono) non hanno scrupoli nel riconoscere la "mano di dio" nella punizione del morbo. Summa summarum, direbbe Kierkegaard: "Che s'ammazzino pure tra loro!"