00 21/11/2007 23:32
L CORPO DISSEMINATO IN RETE

Una ipotesi sulle modificazioni della percezione del corpo attraverso il mondo virtuale viene proposta da Antonio Caronia, un cultore del cyberg.

Il suo libro “Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato in rete” (Muzzio Editore, Padova, 1995) contiene spunti interessanti di discussione sul tema. [4]

Caronia inizia col sottolineare quanto le nuove tecnologie, rispetto a quelle del passato, siano ‘tecnologie del possibile’ nel senso che rendono sempre più possibili eventi che siano a ieri non sembravano poter essere tali, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla realtà tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita. L’immaginario del corpo non poteva non essere toccato profondamente da questa svolta. A prima vista, i procedimenti di simulazione digitale, il proliferare delle possibilità di travestimento ‘virtuale’ nelle reti, la prospettiva di mettere in comunicazione a distanza non solo la voce, ma altre funzioni fisico-comunicative di due o più persone, sembra andare in direzione contraria a quella in cui portava il cyborg. Se il contatto sempre più intimo del corpo con tecnologie elettromeccaniche intrusive ci fa pensare a un cambiamento della stessa ‘materia prima’ biologica del corpo, ma non certo a un deperimento della sua dimensione materiale, le tecnologie digitali sembrano andare invece verso un’evanescenza del corpo, verso una sua tendenziale scomparsa nella nuova immaterialità delle interazioni elettroniche. Preso alla lettera, naturalmente tutto ciò è insensato. Il corpo non scompare affatto, soprattutto non scompare la sua funzione di campo simbolico dei processi di interazione fra uomo e uomo. Ma certo si modifica, e si potrebbe dire che ai processi di replica del corpo e di invasione del corpo, le tecnologie virtuali cominciano ad affiancare un terzo processo, quello di disseminazione del corpo nelle reti e negli spazi virtuali, immateriali, delle macchine digitali. Il corpo disseminato è destinato a modificare e a minacciare un rapporto basilare, quello tra corpo e identità.

Quando a William Gibson, il famoso scrittore di fantascienza, venne chiesto quali fossero le fonti di ispirazione del suo romanzo Neuromancer, egli descrisse la fusione tra un umano e la macchina che aveva avuto modo di seguire in un videogame giocato da un ragazzo in un locale cittadino:

“Non avevo mai pensato al videogame e, quando decisi di dare un’occhiata in una di quelle grandi sale per giochi, mi sono sentito molto imbarazzato: erano tutti più giovani di me. Ma poi, una volta dentro, osservando l’intensità fisica del loro atteggiamento, mi resi conto di quanto fossero estasiati questi ragazzi. C’erano fotoni che uscivano dallo schermo per ficcarsi negli occhi dei ragazzi, i neuroni che scorrevano nei loro corpi, gli elettroni che si spostavano attraverso il computer. E questi ragazzi credevano veramente negli spazi proiettati da questi giochi. Chiunque operi con i computer pare sviluppare l’intuitiva fiducia che al di là dello schermo esista un qualche tipo di spazio reale.” (Colin Greenland “An interview with William Gibson”, Foundation 36, pagg. 5-9).

Sia l’effetto di realtà dunque, che l’eventuale interazione con altri soggetti che abitino lo stesso spazio virtuale, sono immateriali.

Prosegue Caronia. “Mi trovo in uno spazio tridimensionale, per esempio una stanza, che risponde ai movimenti della mia testa, rivela ai miei occhi ciò che rivelerebbe uno spazio materiale: prospettive differenti. Però coerenti con l’ipotesi di un unico ambiente che mi si mostri di volta in volta diverso in relazione alla diversa posizione dei miei occhi. Nella stanza ci sono anche altri esseri: possono apparirmi sotto una qualsiasi forma, ma io posso allontanarmi o avvicinarmi a loro come farei nel mondo reale, posso sentire le loro voci, posso percepirli accanto o dietro a me. Ma tutto ciò ha effetto solo sulla mia percezione dell’esterno, non su quello che capita al mio corpo fisico. Io percepisco i corpi degli altri, anche lontani, come se fossero vicini: quanto a me, continuo a percepire il mio corpo nel modo usuale, ma gli effetti di questo corpo avvengono in uno spazio diverso dal mio, e con modalità dissimili ….. “

Quello che è importante notare è che, nelle realtà virtuali di ogni tipo, il rapporto con lo spazio virtuale dipende sempre meno da una proiezione immaginaria del partecipante (come avviene nella lettura di un libro o nella visione di un film), e sempre più dalla percezione sensoriale diretta dello spazio stesso. Con questo non si vuole affermare che il virtuale annulli d’un colpo le congetture e le interpretazioni che ognuno di noi fa in presenza di una nuova esperienza, anche di spazi immaginari o simulati, ma solo che questo lavoro coinvolge adesso l’insieme dei sensi, e non solo più facoltà mentali come l’immaginazione.

Anche De Kerckove insiste sull’importanza nel virtuale della percezione della realtà attraverso tutti i sensi:

Mentre il nostro feedback sensoriale si estende ben oltre la nostra pelle, non abbiamo espanso di pari passo la nostra immagine corporea. Quando telefono da Toronto a Monaco, divento di colpo un cieco lungo settemila chilometri. Quando uso la videoconferenza sono più completamente là, nella stanza lontana che contiene la mia immagine, di quando uso semplicemente il telefono. In effetti, nella simulazione e nelle estensioni del nostro sistema nervoso, complete di protesi tecnologiche per la vista, l’udito, il tatto e ora perfino l’olfatto, noi figuriamo personalmente come entità nodali che si muovono avanti e indietro su trame di corrente elettrica coestensive con la nostra formazione biologica e neurologica. Come fare i conti in termini psicologici? Qual è l’effetto sulla mia immagine di me stesso?

La nostra percezione propriocettiva della realtà coinvolge il corpo intero in tutti i sensi. Il modo in cui io mi pongo rispetto al mondo delle comunicazioni istantanee è legato al mio punto di stato, non al mio punto di vista. C’è solo un luogo dove io mi trovo completamente, ed è dentro la mia pelle, anche se quella pelle e le sue estensioni tecnologiche hanno una portata che va ben oltre i limiti immediati della vista, del tatto e dell’udito.

Solo gli ultimi brandelli dei nostri vecchi pregiudizi visivi possono ancora impedirci di riconoscere quello che è palese: l’interattività è contatto. [5]