00 21/11/2007 03:41
Si può curare l'epilessia?

Certamente sì, anche se solo nel 60-70% dei casi. Si usano infatti farmaci che controllano e bloccano la tendenza delle cellule cerebrali a produrre scariche epilettiche. Purtroppo l'effetto dei farmaci termina poche ore dopo che si è interrotta la cura; ed è per questo che la terapia dell'epilessia è molto impegnativa per il paziente che assume i farmaci e per il medico che li prescrive, poichè è necessario che il medico scelga il farmaco e le dosi in maniera corretta, ma è altrettanto importante che il paziente comprenda il significato e gli scopi della terapia e la prosegua in maniera precisa e per un lungo periodo di tempo, quasi sempre molti anni e non raramente tutta la vita.

Quanto incide la volontà del paziente?

Vanno considerati vari aspetti. Vi sono pazienti che riescono, all’inizio della crisi, concentrandosi particolarmente, modificando il ritmo del respiro o l’attività motoria, a controllare del tutto o parzialmente le loro crisi. Poi c’è un problema di precisione della terapia: le medicine che bloccano l’insorgere della crisi devono essere mantenute in una concentrazione abbastanza stabile nel sangue nelle 24 ore, un giorno dopo l’altro, per anni. Essenziale è quindi la precisione nell’assunzione delle terapie. Quindi, alcuni pazienti (i casi che noi definiamo di pseudo-resistenza) non trovano giovamento perché non seguono la terapia in maniera precisa, il che non è un impegno da poco.

L'epilessia si può curare ma non si può guarire?

No, non è sempre così. Vi sono le forme che iniziano nella infanzia, su base costituzionale, che si esauriscono spontaneamente con l'accrescimento e vanno quindi curate per periodi limitati, in attesa della guarigione spontanea. Inoltre, in alcuni casi (che vanno accuratamente selezionati) si può asportare, con un intervento chirurgico, la zona del cervello da cui prende inizio la crisi. Identificare questi casi è uno dei compiti più impegnativi per chi si occupa di epilessia. In Italia esisteva fino a poco tempo fa un solo centro dedicato a questo tipo di chirurgia, all’Ospedale Niguarda di Milano, con il quale la FOREP è in stretto contatto. La FOREP è impegnata nella creazione di una struttura analoga destinata ad occuparsi dei pazienti che si trovano nell’Italia centrale e meridionale, localizzato presso L'Istituto Neurologico NEUROMED di Pozzilli (IS), nella regione del Molise.

E' chiaro che, naturalmente, in tutti i servizi di neurochirurgia si opera sul cervello, anche in pazienti che hanno l’epilessia, ma una struttura dedicata a questo specifico problema non esiste, tranne appunto quella di Milano. La differenza fra un servizio generale di neurochirurgia e un servizio per la chirurgia della epilessia è che nel primo si opera la lesione, nel secondo si opera la zona che provoca le crisi, che non coincide sempre con la lesione. La differenza è notevole, sul piano delle indagini e del successo nel sopprimere le crisi.

Come si possono selezionare i pazienti per l'intervento chirurgico?

L'intervento è limitato ai soggetti che soffrono di crisi non controllate dai farmaci. Inoltre è necessario essere certi che le crisi prendono origine da una precisa e identificabile zona del cervello; infine questa zona deve essere asportabile chirurgicamente senza creare deficit, cioè senza provocare perdita di forza o di sensibilità, o disturbi della parola.

Come si definisce la zona di origine delle crisi?

E' denominata focolaio o area epilettogena, e può essere situata in un qualsiasi punto della corteccia cerebrale.

Come si riesce a stabilire ove è localizzato il focolaio o l'area epilettogena?

Bisogna osservare le crisi. Per questo si usano sistemi combinati di registrazione dell'elettroencefalogramma e di un nastro video. In pratica il paziente si siede davanti a una telecamera, mentre viene registrato l'elettroencefalogramma. Si siede e aspetta.

Che cosa aspetta?

Aspetta che arrivi la crisi. Generalmente si tratta di pazienti con molte crisi, e per renderle più probabili vengono diminuiti leggermente i farmaci antiepilettici.

Non è pericoloso?

No, perché un medico esperto è sempre presente, assieme a un tecnico, pronti a intervenire se sopravviene la crisi. Inoltre, l'ambiente è protetto, poichè il paziente viene posto in una comoda poltrona, senza rischio di traumi, e in un reparto neurologico dedicato a questi problemi.

Ma l'attesa è lunga?

Certamente di qualche giorno. In media per osservare le crisi è necessario ricoverare il paziente per 5-15 giorni. Si esaminano i pazienti mentre la crisi è in corso, interrogandoli per capire se è compromesso il linguaggio e la coscienza, poi si rivedono i nastri video al rallentatore, mentre il tracciato elettroencefalografico viene esplorato con diversi montaggi degli elettrodi. Si riesce quasi sempre a capire ove è piazzato il focolaio. Certe volte è necessaria l'integrazione mediante elettrodi posti chirurgicamente in zone strategiche dell'encefalo. Questa tecnica si chiama stereo-elettroencefalografia.

Stereoelettroencefalografia? Elettrodi posti nel cervello? Quali sono i rischi?

I rischi sono bassissimi, inferiori all'1%. La metodica diventa necessaria quando i focolai e l'area epilettogena sono situate in una zona di corteccia posta in profondità o quando le scariche epilettogene si diffondono rapidamente e il punto di partenza non è chiaro, o quando vi sono focolai bilaterali. Sapere il punto preciso di origine è essenziale per non effettuare operazioni chirurgiche inutili. Con gli elettrodi di profondità si può raggiungere direttamente il fulcro del focolaio, mentre - osservando solamente l'elettroencefalogramma di superficie - può sfuggire la parte iniziale della scarica epilettogena, "i primi due cruciali secondi".

Quali sono i vantaggi della chirurgia?

Asportando il focolaio e la zona circostante si bloccano le crisi all'origine. Nell'80% dei casi il paziente guarisce; la percentuale di effetti secondari è dell'ordine del 1-2%.

L’intervento nel caso in cui non comporti la guarigione implica comunque dei rischi?

Non molti. Il grosso problema della chirurgia dell’epilessia, ed il motivo per il quale è necessaria un’organizzazione specifica, è che bisogna essere sicurissimi sulla zona di origine della crisi, perché ovviamente non si può asportare una zona di cervello troppo ampia (a parte casi particolari); inoltre, dobbiamo essere assolutamente sicuri che la zona responsabile delle crisi si possa rimuovere senza che il paziente subisca danni (i principali sono i disturbi motori o della parola; nelle zone che possono dare questi disturbi non si può operare). Ci sono alcune tecniche particolari applicate a questi casi, ma il grosso problema è identificare il punto di partenza e essere certi che questo non coincida con una zona del cervello fondamentale per la vita di relazione.

Ma allora la terapia farmacologica verrà abbandonata a favore della chirurgia! Vi sarà ancora la spinta a trovare nuovi farmaci?

Terapia farmacologica e chirurgica si integrano perfettamente. Innanzitutto la chirurgia viene presa in considerazione quando i farmaci non funzionano (parliamo in questi casi di "epilessie farmacoresistenti"); in secondo luogo, solo una percentuale di questi pazienti può essere operata. I focolai in zone essenziali per il movimento o la parola non possono essere rimossi. Inoltre i farmaci vanno proseguiti - anche se a dosi minori e talora temporaneamente - dopo la chirurgia. Infine circa un terzo delle epilessie è di natura costituzionale, senza alcuna lesione strutturale del cervello, e in questi casi solo i farmaci possono aiutare il paziente. La ricerca farmacologica fortunatamente prosegue. Negli ultimi anni abbiamo avuto a disposizione molte molecole nuove. Tuttavia, un nuovo farmaco consente di guarire non più del 2-3 percento delle epilessie resistenti; è probabile che questo dipenda dai meccanismi d'azione, molto simili nei vecchi e nei nuovi farmaci. La vera novità sarebbe un meccanismo d'azione inesplorato, e questo è più difficile da intravedere. Inoltre, il mercato si va restringendo (molti farmaci per la stessa patologia), e poiché un nuovo farmaco costa in media circa cento milioni (di dollari), vi sarà in futuro meno interesse commerciale a scoprire nuove molecole. Le aziende farmacologiche sono anche imprese commerciali, e per produrre devono vendere.

Esiste una prevenzione per l’epilessia?

Si, ed è basata sulla rimozione dei fattori che provocano tale malattia. Una delle cause più facilmente rimovibili è costituita dagli inconvenienti durante il parto o subito dopo la nascita, perché il cervello neonatale è estremamente sensibile alla carenza di ossigeno. Nel momento in cui si passa dalla respirazione attraverso il cordone ombelicale a quella attraverso i polmoni c’è un intervallo di qualche secondo che, se si prolunga, provoca una carenza di ossigeno e lascia delle cicatrici che svilupperanno l’epilessia negli anni seguenti. Un’altra causa facilmente prevenibile sono i traumi cranici, mediante l’uso del casco da parte dei motociclisti e della cintura da parte degli automobilisti. È stato calcolato che l’obbligo di indossare il casco ha risparmiato circa 500 morti all’anno. Molti sopravvivono all’incidente con lesioni cerebrali. Infatti, una delle cause più frequenti di epilessia è la cicatrice traumatica dovuta a contusione del cervello: quando il cranio subisce un colpo il cervello rimbalza nella scatola cranica e urta contro le pareti di questa, nel punto d’impatto ci può essere un infossamento del tavolato cranico e una lesione diretta del cervello. Si crea una irritazione delle cellule cerebrali che nel giro anche di 1 o 2 anni sviluppa crisi epilettiche. In linea generale un metodo di prevenzione è il buon trattamento delle patologie del sistema nervoso.

Non abbiamo invece una convincente prevenzione farmacologica. Una delle abitudini di molti neurochirurghi e neurotraumatologi, che noi non condividiamo, è di somministrare un farmaco contro l’epilessia ai pazienti che subiscono un intervento neurochirurgico o un trauma cranico. Non siamo d’accordo perché non è mai stato dimostrato che i farmaci presi prima dello sviluppo delle crisi abbiano un effetto preventivo. Purtroppo, le terapie mediche contro l’epilessia agiscono contro la crisi, non contro la formazione delle lesioni responsabili delle crisi. Sono terapie sintomatiche. Qualcosa che impedisca la formazione del focolaio delle crisi fino ad ora non è stato scoperto. Inoltre, somministrando un farmaco quando il paziente non ha avuto crisi si possono indurre crisi da sospensione, quando la terapia viene interrotta.

Il pubblico conosce tutto quello che si può fare per curare l'epilessia?

Il grande pubblico conosce poco l'epilessia, anche perchè non raramente chi ne soffre ha paura di farlo sapere, come se avere le crisi fosse una colpa. Vi è un tabù sull'epilessia, che è necessario sconfiggere. Per questo è importante informare, e un ruolo fondamentale è svolto dalle associazioni per la promozione della ricerca, come la FOREP, e dalle associazioni laiche, cioè le unioni di pazienti e parenti, che possono agire da tramite fra la comunità scientifica e il grande pubblico.

Ci sono Associazioni di questo tipo in Italia?

Certamente. La Associazione Italiana contro l'Epilessia (AICE, Tel. 02.76015551) che ha sede a Milano e diramazioni in tutta l’Italia, provvede a organizzare convegni divulgativi e a informare le famiglie circa i diritti dei pazienti. Lo stesso fa in Piemonte l'APICE (Tel. 011.533496).