Umanità, animalità, quali frontiere?

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sonardj
00martedì 18 marzo 2008 04:11
Umanità, animalità, quali frontiere?


di GARY L. FRANCIONE *

Nel 1993, un gran numero di esperti ha elaborato in comune un libro-manifesto intitolato The Great Ape Project: Equality Beyond Humanity (Il Progetto Grandi Scimmie. L'eguaglianza al di là dell'umanità) (1). Questo libro serviva da supporto a un documento, la Dichiarazione sulle grandi scimmie antropoidi, sottoscritto dai promotori e da trentaquattro primi firmatari. La dichiarazione stabilisce che le grandi scimmie «sono i cugini più vicini alla nostra specie» e che questi animali non umani «sono provvisti di capacità mentali e di una vita emozionale sufficienti a giustificare la loro integrazione all'interno della comunità degli eguali (2)».
In questi ultimi anni, una considerevole letteratura si è sviluppata attorno al tema dell'attitudine delle grandi scimmie, dei delfini e dei pappagalli, e forse di altri animali ancora, a possedere caratteristiche cognitive che si pensavano esclusivamente umane (3). Queste caratteristiche includono la coscienza di sé in quanto individuo, la capacità di provare emozioni e di comunicare utilizzando un linguaggio simbolico.
Recentemente, in Spagna, ci si è impegnati a creare con le grandi scimmie antropoidi una categoria di esseri viventi, che godrebbe di una protezione rafforzata. Il Progetto grandi scimmie ha semplicemente messo in pratica quello che io chiamo la «teoria della similitudine di pensiero (4)» nella relazione umani/non umani: gli animali dotati di una capacità di riflessione simile alla nostra dovrebbero essere oggetto, da parte nostra, di considerazione morale e protezione legale più significative.
L'approccio della teoria della «similitudine di pensiero» ha dato origine ad un'industria di etologisti, impazienti di studiare quali sono le caratteristiche cognitive comuni all'essere umano e al non umano, e ciò, paradossalmente, in prevalenza tramite la sperimentazione animale. Ma questa teoria presenta un inconveniente: essa comporta che gli animali che non posseggono le qualità cognitive richieste per avere diritto al trattamento preferenziale - riservato, dunque, ai non umani che posseggono una capacità di pensiero simile alla nostra - sarebbero paragonabili a oggetti, buoni solo ad essere trattati, magari, con «umanità».
Da parte mia, ho collaborato al Progetto grandi scimmie e sono tra i primi firmatari della Dichiarazione sulle grandi scimmie (5). Ma il mio contributo al progetto, con un saggio nel 1993, così come con il libro che ho pubblicato qualche anno più tardi (6), segna bene la mia divergenza circa i criteri d'integrazione dell'individuo non umano nella comunità morale: la sola capacità di provare piacere o dolore è sufficiente; nessun'altra caratteristica cognitiva deve essere richiesta.
La teoria della similitudine di pensiero è presentata dai suoi ideatori come un progresso, in quanto permetterebbe almeno l'integrazione di alcuni individui non umani nella comunità degli eguali. Ai miei occhi, questa analisi è inesatta, nel senso che è vero il contrario - la teoria della similitudine di pensiero non farà che sostenere la nostra propensione ad escludere praticamente tutti i non umani dalla comunità morale.
Forse è tempo di esaminare più da vicino questa vasta impresa, che consiste nel subordinare il significato morale degli individui non umani a qualità cognitive più importanti della loro sensibilità, piuttosto che sforzarsi di determinare se i non umani possiedono queste qualità cognitive, o se le possiedono in misura tale da renderli abbastanza vicini all'uomo da meritare di avere un'esistenza morale e legale.
Gli umani non hanno il monopolio delle capacità cognitive come la fiducia e il desiderio Prima di tutto la teoria della similitudine di pensiero mi sembra in un certo senso francamente assurda. Esiste qualcuno che, avendo vissuto con un cane o un gatto, neghi loro qualsiasi forma d'intelligenza, di coscienza di sé, anche se sono geneticamente molto più lontani di noi dalle grandi scimmie? Non si può spiegare in modo plausibile e coerente il comportamento di questi animali non umani, senza fare riferimento al concetto di pensiero. È forse impossibile affermare in maniera assoluta e definitiva l'esistenza da parte loro di comportamenti intenzionali paragonabili a quelli degli individui che utilizzano il linguaggio dei segni, ma sono innegabilmente dotati di capacità cognitive quali la fiducia, il desiderio, ecc.
Inoltre, centocinquant'anni dopo Darwin, si può trovare sorprendente il turbamento provocato dal fatto di constatare che altri animali posseggono caratteristiche abitualmente riservate all'uomo. La tesi secondo la quale gli esseri umani avrebbero facoltà mentali assolutamente assenti negli animali non umani è incompatibile con la teoria darwiniana dell'evoluzione, la quale riposa sul principio stesso che non esistono specificità puramente umane. Questo non vuol dire che non vi siano differenze significative tra un animale che si serve del linguaggio simbolico e un altro che è incapace di farlo. Significa solo che l'animale detentore di una particolarità cognitiva non è per questo «qualitativamente» superiore a quello che ne è sprovvisto.
Nonostante la mia convinzione che i non umani posseggano queste famose caratteristiche che consideriamo come esclusivamente umane, sono tuttavia cosciente che su questo punto esiste un dibattito. È un fatto: sono evidenti le distinzioni tra intelligenza umana e quella degli animali che non utilizzano il linguaggio. Ma esistono almeno due ragioni per rifiutare la nozione secondo la quale il criterio di sensibilità degli individui non umani sarebbe insufficiente a riconoscere loro il diritto di essere membri della comunità morale a pieno titolo.
La prima è innanzitutto di ordine pratico: la teoria della similitudine di pensiero induce almeno seri cambiamenti nei confronti dei non umani che posseggono caratteristiche cognitive molto vicine alla nostre?
La seconda ragione è di ordine concettuale e mette in evidenza l'impossibilità per questa teoria di affrontare la questione morale fondamentale: perché caratteristiche altre dalla sensibilità sarebbero richieste per potere appartenere alla comunità morale?
È molto probabile che la teoria della similitudine di pensiero non avrà altro effetto che ritardare il momento in cui dovremo far fronte ai nostri obblighi legali e morali verso i non umani. Il tempo che si stabilisca la pretesa «prova empirica» che alcuni di questi individui hanno, perlomeno, un'intelligenza vicina a quella dell'uomo. Tuttavia, anche quando questa somiglianza è comprovata, facciamo finta di non vederla e continuiamo a sfruttare gli animali. Per esempio, la parentela prossima tra gli umani e gli scimpanzé è inconfutabile. Il loro Dna è al 98,5% simile al nostro. In più hanno un comportamento mentale e culturale confrontabile con quello dell'essere umano. Conosciamo queste somiglianze già da molto tempo. D'altra parte, l'intero Progetto grandi scimmie aveva lo scopo di dimostrare in maniera definitiva che non esiste, tra gli umani e le grandi scimmie, alcuna disparità che giustifichi la loro esclusione dalla comunità morale. Eppure, continuiamo a imprigionare gli scimpanzé negli zoo e ad utilizzarli come cavie nelle sperimentazioni biomediche. Anche Jane Goodall, che ha il merito di aver «fatto scoprire all'opinione pubblica che gli scimpanzé sono individui con personalità distinte e relazioni sociali complesse (7)» ha rifiutato di lanciare un appello per la definitiva messa al bando dello sfruttamento da parte dell'uomo di questi non umani.
Questo problema mette in luce l'evidente punto debole della teoria della similitudine di pensiero: quale grado di somiglianza con l'uomo si esige da un non umano affinché lo si consideri abbastanza «simile a noi» da riconoscergli un valore morale?
È stato provato, ad esempio, che i pappagalli sono dotati delle medesime capacità concettuali di un bambino di 5 anni. Eppure, i negozi che vendono animali continuano a vendere pappagalli. Quale grado di intelligenza richiederemo ad un pappagallo, per accettarlo nella comunità morale?
Bisogna che il pappagallo abbia le capacità concettuali di un bambino di 8 anni? Di 12 anni? Allo stesso modo, gli scimpanzé hanno dimostrato la loro attitudine a servirsi del linguaggio umano. Quale deve essere l'estensione di questa attitudine nel maneggiare sintassi e vocabolario per riconoscere loro un'intelligenza paragonabile alla nostra?
Il linguaggio simbolico ha, sul piano morale, maggior valore dell'orientarsi con l'aiuto degli ultrasuoni?
Il problema, con questa storia delle caratteristiche particolari, è che i non umani non possono vincere mai. Quando osserviamo che i pappagalli posseggono l'abilità concettuale di capire e di manipolare numeri a una sola cifra, esigiamo che facciano lo stesso con i numeri a due cifre, per ammettere che ci somigliano di più. Quando uno scimpanzé dà prova di possedere un vocabolario esteso, reclamiamo che riveli il livello sintattico per avvalorare il suo legame di parentela con noi. Beninteso, nel giudicarli, selezioniamo determinate attitudini e non altre. Perché è inutile dire che molti non umani ne posseggono di altro tipo, e ben migliori, di cui noi siamo sprovvisti. Ma non ci verrebbe mai in mente di riservare a membri della nostra specie il trattamento che infliggiamo agli animali. C'è da temere che la teoria della similitudine di pensiero finisca col pretendere che gli animali abbiano una capacità di riflessione non solo simile, ma identica alla nostra. Se la loro intelligenza non è copiata su quella degli umani, non avranno alcuna possibilità di essere, un giorno, considerati come membri della nostra comunità morale. E, in caso contrario, quale garanzia hanno di non essere vittime di discriminazione? Dopo tutto, non molto tempo fa, nel XIX secolo, i razzisti si fondavano ancora sulla frenologia, cioè lo studio delle facoltà dominanti di un individuo secondo la forma del cranio, per dichiarare che altri esseri umani avevano un'intelligenza diversa.
Possedere un'intelligenza identica non è dunque una garanzia di buon trattamento, se persiste la volontà di discriminare. La capacità di riflessione tra gli animali che utilizzano il linguaggio dei segni e gli altri lascia presumere delle differenze. La teoria della similitudine di pensiero servirà quindi solo da prescrizione al proseguimento dell'oppressione sugli animali, in quanto siamo eternamente alla ricerca di un'identità che non sarà mai raggiunta, soprattutto se ci anima il solo desiderio di consumare prodotti animali.
Nell'ipotesi in cui la teoria della similitudine di pensiero ci portasse a riconoscere la personalità di certi non umani, come le grandi scimmie antropoidi o i delfini, che succederebbe alle specie animali che non potranno mai dimostrare un'attitudine ad utilizzare il linguaggio umano o altre caratteristiche che associamo all'intelligenza umana?
Questa teoria schiva la questione morale sottostante e tuttavia fondamentale: perché gli animali non umani dovrebbero distinguersi con qualità diverse dalla sensibilità, per avere il diritto di non essere considerati dall'uomo esclusivamente come oggetti al suo servizio?
La teoria della similitudine di pensiero suppone che le proprietà cognitive umane abbiano un valore morale e, per questo fatto, meritino un trattamento particolare. Beninteso, niente giustifica una tale posizione: in che cosa le caratteristiche specifiche dell'uomo avrebbero, nel senso morale del termine, più valore di quelle dei non umani?
La nostra facoltà di linguaggio ci è preziosa perché siamo degli esseri umani, così come l'ecolocalizzazione (8) è preziosa per i pipistrelli in quanto mammiferi volanti ciechi. Saremmo disposti a sostenere che la facoltà di utilizzare il linguaggio simbolico possiede, sul piano morale, maggior valore dell'orientarsi con l'aiuto degli ultrasuoni?
Inoltre, anche se tutti gli animali fossero privi di ogni caratteristica cognitiva particolare oltre alla sensibilità o ne possedessero una a un livello inferiore, o in maniera diversa dall'uomo, questa dissomiglianza non giustificherebbe in alcun caso che noi ci si serva degli animali come di cose.
Per quanto riguarda certe attitudini, le differenze tra uomo e animale sono tuttavia palesi. Nessuno afferma, per esempio, che gli animali dovrebbero guidare automobili o seguire corsi universitari e, tuttavia, siamo tutti d'accordo, queste differenze non giustificano affatto che noi mangiamo o meno gli animali, o che li sottoponiamo a torture nelle sperimentazioni. È più evidente nelle situazioni che riguardano solo l'essere umano. Quale che sia la caratteristica identificata come propria dell'uomo, se ne troverà appena la traccia in alcune persone, e in altre sarà totalmente assente. Alcuni esseri umani soffriranno di una deficienza del tutto identifica a quella che attribuiamo ai non umani. Questa deficienza può rivelarsi problematica in alcuni contesti, ma ciò non implica in alcun caso che si faccia di questi esseri umani degli schiavi o che li si consideri come oggetti senza valore.
Nessuno pretende che gli animali debbano guidare automobili o seguire corsi universitari, ma...
Che l'intelligenza degli animali sia o meno simile alla nostra, non deve essere un motivo per non rispettare il dovere morale di cessare ogni sfruttamento dei non umani, né per far premio sul fatto che sono esseri sensibili. Questa sera, vi metterete a tavola per cenare.
Nel vostro piatto, forse troverete carne di manzo, di pollo o di pesce. Non potrete sfuggire a un dato di fatto: degli animali sono stati uccisi per confezionare la vostra cena. Inoltre, saprete che l'animale di cui mangerete la carne non solo è stato ucciso per alimentarvi, ma ha anche sofferto prima e durante la sua uccisione. Questa presa di coscienza non dovrà fondarsi sulla eventualità di una similitudine d'intelligenza tra voi e l'animale, ma sul fatto che era, come voi, un essere sensibile che aspirava solo a vivere. E anche se rimane qualche dubbio sull'esistenza di una sensibilità negli insetti o in altre creature viventi, i milioni di mucche, maiali, polli e anatre, che ammazziamo ogni anno, non rientrano in ogni caso in questa categoria.
In conclusione, iniziative come il Progetto grandi scimmie riguardano molto meno la preoccupazione per le grandi scimmie, che non la nostra volontà di consolidare la classificazione specista (9), che non li riconoscerà mai come membri a pieno titolo della comunità morale E che farà sicuramente in modo che tutti gli altri animali non passino mai la soglia del cerchio ben chiuso degli animali eletti.


note:
* Professore di diritto alla Rutgers University School of Law, a Newark (New Jersey, Stati uniti). Autore di The Personhood of Animals, Columbia University Press, New York, 2007.

(1) Paola Cavalieri e Peter Singer (sotto la direzione di), The Great Ape Project, Fourth Estate, Londra, 1993. In italiano Il progetto grande scimmia, Theoria, 1994.

(2) The Great Age Project, op. cit., p. 5.
(3) Ndlr: per saperne di più, consultare per esempio www.onevoice- ear.org o www.animauzine.net
(4) «Our hypocrisy», The New Scientist, Londra, 4 giugno 2005.

(5) «Personhood, property and legal competence», in Great Ape Project, op. cit., p. 248-257.

(6) Introduction to Animal Rights: Your Child or the Dog? Temple University, Filadelfia, 2000.

(7) The Great Ape Project, op. cit., p. 10.

(8) Modo di orientamento proprio di alcuni animali, che individuano ostacoli e prede tramite ultrasuoni che producono un'eco.

(9) Lo specismo è un neologismo creato per contestare il posto particolare accordato all'essere umano che non sarebbe che un animale tra gli altri.
(Traduzione di G.P.)
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