La Civiltà Maya

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sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:25
IL MONDO MAYA: QUADRO GEOGRAFICO E STORICO



Le scoperte archeologiche di questi ultimi decenni hanno distrutto la vecchia storia secondo la quale la civiltà Maya si sarebbe trovata isolata nel suo splendido sviluppo, per diventare poi in seguito l’ispiratrice delle altre culture vicine. Non c’è nulla di vero, e noi oggi sappiamo che cinque nuclei importanti si sono sviluppati parallelamente durante il periodo classico, e cioè all’incirca tra il 300 e il 900; quattro civiltà si sono dunque trovate in contatto culturale più che materiale con il mondo Maya: quella degli Olmechi, o dei La Venta , la più vicina ai Maya, in fondo al golfo del Messico, a sud del Veracruz; quella nel cuore del Veracruz, con la tribù dei Totonachi, che si sviluppò attorno a El Tajin, tra il VII ed il XIV secolo; quella degli Zapotechi di Monte Alban nella regione di Oaxaca, che fiorì soprattutto tra il 500 e il 1000; e in fine quella di Teotihuacan, la città delle grandi piramidi, la cui “età dell’oro” è da collocare tra il 400 e il 700. Siccome tutte queste civiltà presentano dei tratti culturali comuni, subito si pone il problema delle origini del popolamento.

In verità gli spagnoli incontrarono un vero e proprio mosaico di popoli diversi in quelle distese immense i cui panorami si succedevano con una varietà infinita, andando dalle steppe desertiche, irte di cactus, alle tundre ghiacciate delle alte vette, macchiettate di muschi e licheni, alle torride Tierras calientes, umide e ricche di vegetazione esuberante, alle zone temperate, Le Tierras Templadas, coltivate e ricche di pini e di felci arboree, e infine alle fredde Tierras Frias, situate tra i 2000 e i 3000 metri sul livello del mare. La vita e le credenze religiose risentivano dell’ambiente ostile in cui cicloni, eruzioni, terremoti erano assai frequenti.

Una diversità appariva pure dallo studio dei vari dialetti. Un etnologo francese, studiando l’universo precolombiano, ha individuato 123 famiglie di lingue diverse con legami di parentela assai blandi tra di loro. Lo strano polimorfismo constatato sia per quanto riguarda gli aspetti antropologici che linguistici lascia perplessi tutti i ricercatori: la diversità sconcertante delle caratteristiche fisiche (concernenti la statura, la morfologia, la pigmentazione, i gruppi sanguigni ecc) o i dialetti degli Amerindi non smette di sconcertare. La spiegazione di tale diversità va cercata nella natura e nella lunga storia della popolazione americana.

sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:26
IL TERRITORIO MAYA – IL QUADRO GEOGRAFICO



Osserviamo ora rapidamente il passaggio nel quale i Maya svilupparono la loro sbalorditiva civiltà. A dire il vero, delle centoventitrè famiglie etniche individuate, è innegabile che quella dei Maya ha dato origine alla cultura più brillante, più evoluta, più dotta, oltre che più diffusa e più compiuta dal punto di vista artistico. La straordinaria avventura Maya si colloca grosso modo lungo i primi quindici secoli della nostra era; il suo periodo di maggior splendore si trova tra il III ed il XII secolo e la sua “morte” ufficiale, dal punto di vista militare, risale al 1697 a Tayasal (Peten – Guatemala).

La grandezza raggiunta da quel piccolo popolo poco numeroso, ci sorprende ancor più in quanto lo spazio e lo scenario nel quale questa civiltà si sviluppò presenta un carattere particolarmente ingrato e ostile: o troppa acqua o poca. Forse, accettando il parere di J.Toynbee, è il caso di dire che proprio quella sfida alla natura e la necessità di vincere la terra e gli elementi hanno temprato e rinvigorito l’animo di quel piccolo popolo, sognatore ma deciso.

Situato nel cuore dell’America Centrale, all’estremità Sud-orientale dell’altopiano centrale messicano, il territorio dei Maya occupava una superficie grande quanto l’Italia, estendendosi per circa 900 chilometri, dalle coste del Pacifico, a Sud, fino all’estremità settentrionale dello Yucatan, una specie di sperone che si spinge verso Nord, in direzione del Tropico del Cancro.

Intorno all’universo Maya, i popoli confinanti, parlano soprattutto nahuatl, la lingua del Messicani dell’altopiano centrale. Spesso si usa il termine “Messicano” in contrapposizione a quello Maya per designare in particolare la civiltà non Maya del Messico. In quella zona Maya, tra il Mar dei Caraibi e il Pacifico, si succedono tre zone diverse dal punto di vista naturale: ambiente, vegetazione, clima, tipo di vita cambiano man mano che ci si sposta da una costa all’altra e da Sud verso Nord.

sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:26
LE DIVINITA’ TERRESTRI



Gli astri si sono riuniti in cielo e fanno piovere sulla terra; i raccolti crescono, il mais matura. Prima di dissodare la sua milpa provvisoria, di faticare a mano con la zappa, di seminare, di raccogliere… il contadino Maya digiunava, praticava la continenza – ad esempio per tredici giorni per la semina – e non mancava di portare offerte e di bruciare coppale ai piedi delle divinità della terra. Il fatto di personificare il mais come un essere vivente e deificarlo può sorprendere uno spirito occidentale; ciò fu fondamentale nel pensiero Maya e, allo stesso modo, per cui noi ci riteniamo nati dal fango, i Maya si ritenevano nati dal mais. Anche il dio del mais occupava un posto preponderante nel culto e nel cuore dei contadini in maniera particolare. Del resto si tratta del solo dio che abbia forme umane, giovanili e amabili oltre ogni dire: veniva rappresentato sotto le sembianze di un giovane uomo – la sua testa serviva, tra l’altro, come simbolo del numero otto – con i capelli lunghi, senza dubbio per richiamare le barbe della pannocchia, e da essi scaturivano precisamente delle spighe di quel venerato mais.

In epoche terminali, venne chiamato Yum Kax, il “Signore delle Foreste”, e gli vennero attribuiti tutti i caratteri di una divinità agraria. Dio della prosperità e dell’abbondanza, il dio del mais appariva spesso associato a simboli di morte, perché non si può creare la vita senza la morte: affinché il seme dia germoglio, bisogna sotterrarlo e lasciarlo “lavorare” come un cadavere. In questi casi il dio viene rappresentato sotto forma di decapitato, o con una testa mozzata a tracolla sul petto, per ricordare che il seme muore affinché possa nascere la giovane pianta.

I fagioli ebbero ugualmente i loro dei ma molto meno valutati di quello del mais. Si possono ricollegare agli dei tellurici, coloro che risiedevano sulle sommità delle montagne – in relazione con le nuvole e la pioggia – alla confluenza dei fiumi, alle sorgenti, oppure nelle grotte. Il dio Giaguaro partecipava a due universi: sotto il suo aspetto visibile ed esteriore, incarnava le forze della terra; sotto il suo aspetto nascosto, sotterrato nella sua tana, incarnava le forze del sottosuolo.

sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:26
LE DIVINITA’ SOTTERRANEE



Nove Signori della notte, chiamati Nove Dei (Bolontku) presiedevano ai diversi mondi sotterranei sovrapposti: sono stati riconosciuti i loro glifi che, non si è in grado di leggere. E’ questo il dominio della morte e dell’aldilà, e noi sappiamo quanto il popolo messicano ne sia ossessionato. I simboli di morte come i crani scarnificati e le ossa incrociate, ritornano sovente nell’iconografia Maya.

Sotto forma di uno scheletro adornato di sonagli, Ah Puch è il dio della morte. Alcuni animali di cattivo augurio lo accompagnano: la civetta, il cane – guida dei trapassati e che veniva seppellito insieme al defunto – il “demone delle nuvole”, l’uccello moan, che è una specie di sparviero. Ed è probabile che Ek Chuah, il dio della guerra e dei sacrifici, abbondantemente raffigurato sui codici, non sia che una forma secondaria della Morte. Lo si deduce dalla sua figura nera, dalle sue labbra spesse e cadenti, e qualche volta dalla sua coda di scorpione. Non diversamente dalle altre, anche la sua personalità è idealizzata e ambivalente: ora lo si vede portare un involto sul dorso, e infatti è un dio tenuto in considerazione dai viaggiatori e dai venditori ambulanti, i quali frequentemente vengono considerati come spioni – e in questo caso egli è il protettore del cacao – ora appare, brandendo una lancia, come il dio delle battaglie e dei sacrifici di sangue.

Nel numero degli dei della Morte e dei mondi infernali, bisogna includere Ixtab, la dea del suicidio, raffigurata sul codice mentre è sospesa nel cielo per mezzo di una corda annodata al collo. Suicidi, sacrificati, soldati uccisi in combattimento, donne morte di parto…tutti quanti avevano diritto ad andare direttamente nel paradiso Maya, un luogo idilliaco, un eden dove sono piantati i ceiba, gli alberi sacri: quegli immensi alberi (ceiba patandra) contenenti nei loro semi a capsula la lanugine delle kapok – da cui parimenti viene il nome di albero del capo – dagli usi molteplici. Le leggende Maya ci informano che un ceiba gigantesco attraversava tutto l’universo, dai mondi sotterranei ai mondi celesti. I malvagi alla loro morte si recavano nelle Mitnal, il mondo inferiore dove faceva un freddo insopportabile. Aggiungiamo che nel pensiero Maya la morte, le malattie ecc. non avevano affatto un carattere accidentale o naturale, ma erano il giusto castigo delle colpe passate ed erano mandate dagli dei arrabbiati.

Le divinità del tempo e dei numeri ricoprivano un ruolo non indifferente, perché i Maya furono stranamente ossessionati dallo scorrere del tempo, dal suo ritmo ciclico, dal suo carattere ripetitivo e capriccioso. Appassionati dalla conoscenza dell’eternità, i loro sacerdoti – astronomi fecero calcoli che arrivavano a migliaia di anni, anzi a milioni di anni.

Tutti i periodi di tempo – i giorni, i mesi di venti giorni, gli anni, i “secoli” di cinquantadue anni – erano deificati e veniva reso il culto alle stele che si erigevano in date regolari, e contemporaneamente alle cifre che permettevano di realizzare questi calcoli stupefacenti. In questa nebulosa di divinità, bisogna aggiungere quelle che erano connesse a numerose professioni, come per esempio tutti i corpi di artigianato, compresi i tatuatori e gli allevatoti d’api. E persino le lame di ossidiana e di selce avevano un dio patrono.

Infine, durante la rinascenza dei secoli XI e XII, bisogna notare che è preponderante il culto del Serpente Piumato, Quetzalcoatl, tradotto in Kukulkan dai Maya. Egli fu un personaggio storico, capo religioso e guerriero. Chicèn Itzà fu naturalmente il centro dove il culto del Serpente Piumato incontrò il più grande favore. Ha giocato un ruolo capitale come simbolo di concezioni nuove, e noi lo vediamo raffigurato su di un disco d’oro lavorato a sbalzo, ritrovato nella famosa cenote dei sacrifici come un favoloso serpente, che si erge sopra una vittima allungata sul dorso, mentre il sacerdote sacrificatore si appresta a strapparle il cuore. Ma se Kukulkan fu il dio preponderante per tutto il tempo che gli Itzà furono al potere, il giorno in cui essi furono cacciati, vide la sua disgrazia immediata e l’uso della sua immagine scomparve in brevissimo tempo, e gli antichi dei Maya ritornarono in forza.
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:27
LE STELE E IL LORO CULTO



Durante la grande epoca classica, e soprattutto verso la fine, i Maya avevano perso l’abitudine di innalzare ogni Katun – 20 anni – per ogni dieci anni e infine ogni cinque anni, sulla grande piazza cerimoniale delle loro città, una stele scolpita commemorativa, la cui erezione probabilmente avveniva con grande concorso di folla, ed era l’occasione per cerimonie e feste. In più di cento città sono state ritrovate circa mille stele, 86 nella sola Tikal e, per la celebrazione dell’anno 790, per esempio, sono state trovate delle stele in non meno di diciannove città.

Di pianta quadrata, esse superano raramente i tre metri; a Quiriguà, una di esse, risalente al 771, è eccezionalmente lunga (undici metri) e pesa 65 tonnellate. Spesso un altare basso, pure monolitico, veniva loro associato; la sua forma era spesso quella di un semplice tamburo, ma spesso rappresentava animali assai complessi, o favolosi animali mitologici. Questo accoppiamento, di stele – altare, pare originario della città di Tikal. Quasi tutte le stele sono scolpite su tutte e quattro le facciate e rappresentano generalmente, in alto rilievo, un personaggio in piedi, con ricchi ornamenti, che tiene le braccia piegate e la barra cerimoniale appesa al petto. Si tratta senza dubbio di un sacerdote astronomo, con indosso un costume lussuoso, carico di gioielli estremamente complessi; nel campo rimasto libero si allineano colonne di glifi non decifrati. Ignorando il significato di questi testi, non si sa come spiegare il motivo profondo che spinse a costruire a scadenze regolari quei monoliti che continuano a rimanere per noi inspiegabili. Un tempo decorate con colori vivaci, queste stele sono ricoperte ora da una patina monocroma.

Durante sei secoli – 292 e 909 sono le due date estreme reperite – esse vennero erette nel cuore delle città, e le più belle, le ultime, risalgono all’800 per Copan, una città che ne conta ben 38 scolpite nell’andesite, all’810 per Quiriguà, all’869 per Tikal, all’889 per Uaxactun, e infine al 909 per la Muneca; stranamente, nel grande centro di Palenque ne è stata ritrovata solo una.

Comunque, sebbene al momento dell’arrivo degli spagnoli gli abitanti avessero completamente dimenticato il loro significato e il loro ruolo preciso, esse testimoniano tuttavia l’importanza costante e dominante del cosmo e dello scorrere del tempo nella vita dei loro antenati. Si suppone che i codici abbiano assunto le funzioni delle stele, nell’epoca della rinascita, perché, ricordiamolo, proprio intorno all’850 – 900 ebbe luogo lo strano collasso che scosse il mondo Maya.

sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:27
I TRE CODICI



Tre codici soltanto sono sopravvissuti, per puro caso, al periodo coloniale, e si trovano a Dresda, a Madrid e a Parigi; un quarto è stato ritrovato da poco. In totale, con i codici dell’altopiano messicano, ci sono pervenuti 17 codici, mentre migliaia di quei preziosi manoscritti sarebbero state distrutte dai conquistatori iberici. Si presentano come lunghi filatteri, piegati a fisarmonica, formati da molti foglietti scritti e dipinti su due facce; la maggior parte sono costituiti da una specie di carta spessa, detta huun, ottenuta martellando le fibre vegetali di una scorza di “ficus cotinifoglia”, un fico selvatico, cosparsa prima di resina (una gomma naturale vegetale) e poi da un sottile strato di calce spenta, spalmata di amido; insomma, una preparazione simile a quella dell’affresco. Una volta piegati e sovrapposti, i foglietti assumevano esattamente l’aspetto di un libro. Alcuni venero realizzati con sottili pelli di daino.

Dipinti sulle due facciate, con tinte chiare e delicate, queste pagine sono piene di testi, disegni e vignette animate da personaggi spesso mistici. Questi libri ci parlano di divinità, di astronomia, di oroscopi, di rituali religiosi, per quel che è dato sapere, perché dei 372 glifi che vi sono stati rinvenuti, 200 restano totalmente incomprensibili.

Il codice di Dresda (detto codex Dresdensis), il più bello e il più complesso dei tre (cm.350X20X9) risale probabilmente all’XI o XII secolo e ricopia quasi sicuramente un originale del periodo classico; parla delle eclissi, della rivoluzione sinodica di Venere, di riti religiosi e di pratiche divinatorie, per ben 70 pagine. Proprio partendo da quel codice della biblioteca di Dresda, Ernst Forstermann, impiegato di quella biblioteca, riuscì a decifrare una parte del calendario Maya, e a compiere il lungo conto che permette di stabilire una data in rapporto al punto di partenza cronologico Maya, grazie a una serie di glifi. Forstermann, in realtà, si era messo in testa di trovare il contenuto di quello strano libro di magia, e fu il primo, nel 1887, a capire che si trattava di tavole del pianeta Venere.

John Teeple, un ingegnere chimico, costretto dal suo lavoro a frequenti viaggi in treno, usò il suo tempo libero per studiare il complesso sistema di correzione di quelle tavole; una di esse, per esempio, da 69 date di eclissi solari possibili per la durata dei 33 anni successivi… alla redazione del codice naturalmente. Questo codice venne scoperto a Vienna nel 1739, e in seguito venne acquistato dalla biblioteca di Sassonia, a Dresda.

Il codice Tro-Cortesianus di Madrid, che è lungo più di sette metri (cm.715X24X13) e comprende 112 pagine, può risalire al secolo XV. Tratta della divinazione e si presenta come un’opera di consultazione per i preti indovini e tratta anche delle cerimonie in rapporto con i problemi artigianali e dei riti legati alla festa dell’Anno Nuovo. Deve essere stato diviso in due in data che non si è riusciti a stabilire; infatti due biblioteche di Madrid ne possedevano un tempo una parte ciascuna, una con il nome di codex Troano e l’altra con il nome di codex Cortesianus. Poi, dimostrato che esse formavano un tutto, i due tronconi sono stati riuniti al Museo di Archeologia e di Storia di Madrid.

Il codice Peresianus della biblioteca Nazionale di Parigi è parimenti abbastanza tardo (XV secolo) e, essendo in cattivo stato, pare incompleto; è lungo circa cm. 145 e presenta soltanto 22 pagine; è anche questo un’opera di consultazione per i preti indovini e può darsi che le profezie di questo manoscritto abbiano un carattere storico poiché gli avvenimenti futuri erano, nella concezione Maya, delle proiezioni del passato, cioè delle ripetizioni inevitabili. Nella seconda facciata parla della divinità di Katun (7.200 giorni pari a due decenni) e del tun (anno), oltre che delle cerimonie legate alla successione di alcuni di quei Katun. Malgrado l’epoca recente, dal punto di vista dello stile si ricollega ai rilievi di Quiriguà e di Piedras Negras.

Venne scoperto nel 1860 in un mucchio di vecchi documenti abbandonati in un deposito della Biblioteca Nazionale di Parigi; e siccome la carta che lo avvolgeva portava il nome di Perez, venne chiamato codex Peresianus.
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:27
IL POPOL – VUH



Il Popol – Vuh, che tratta in uno stesso tempo i miti, le leggende, la cosmologia e la storia dei Maya Quichè del Guatemala, è in primo luogo la storia della creazione, una creazione che si suddivide in quattro atti, quattro Creazioni successive; questa concezione fu condivisa da tutti gli abitanti dell’America Centrale. Anche se il testo del Popol – Vuh che ci è pervenuto è stato scritto intorno al 1550, in dialetto Quichè trascritto in caratteri latini da un nobile cronista decaduto dalla sua funzione, nondimeno esso contiene tutte le conoscenze che erano state trasmesse fino a quel momento.

Vera e propria Genesi dei Maya Quichè, scritta in un sol fiato senza divisioni in capitoli, il Popol – Vuh rimane il testo essenziale per comprendere l’anima profonda dei Maya. Esso ci riferisce il mito della Creazione così come lo concepivano i Maya, e descrive l’evoluzione dell’umanità con le sue diverse creazioni e i suoi successivi cataclismi. Agli inizi dal caos primitivo emergevano soltanto il cielo e l’acqua, “c’erano soltanto l’immobilità e il silenzio nelle tenebre della notte”. Ma con la potenza del Verbo, gridando semplicemente “La Terra”, gli dei creatori, Gukumatz e Hurakan (dal quale deriva la parola uragano), la fecero comparire. Essi la rivestirono subito di foreste, di praterie, di fiumi e la popolarono di una moltitudine di animali, ciascuno con proprie caratteristiche, abitudini e funzioni particolari. Ma poiché questi ultimi erano incapaci di rendere omaggio agli dei, essi furono destinati a servire soltanto da nutrimento e dunque ad essere uccisi e divorati. Gli dei creatori modellarono poi delle creature di argilla che si rivelarono prive di intelligenza e di sentimenti, senza consistenza ne forma e quindi incapaci di parlare e di onorarli. Delusi, gli dei si affrettarono a distruggerli sciogliendoli nell’acqua. Dopo essersi consigliati con alcuni cacciatori mitici e con alcuni incantatori, gli dei scolpirono allora degli esseri di legno, che parlavano, mangiavano e procreavano, ma il cui viso, essendo di legno, non aveva ne vita ne espressione; essi avevano le mani e i piedi privi di dita, e le loro carni erano gialle, prive di sangue. La loro intelligenza era mediocre e, essendo privi di sentimenti, essi ignoravano i loro creatori. Questi ultimi, delusi di nuovo, li fecero annegare sotto diluvi d’acqua che oscurarono la crosta terrestre come una resina spessa. Dal cane al giaguaro, tutti gli animali si rivoltarono contro quei tristi fantocci e tutti gli esseri del creato si ribellarono contro di loro, gli uccelli per primi, compresi i tacchini e persino gli utensili domestici, marmitte e zucche comprese, con setacci e paioli, si misero contro di loro e li ridussero in polvere o li costrinsero a fuggire sugli alberi più alti. Ecco perché le scimmie, che sono loro discendenti, vivono sugli alberi.

Allora gli dei presero una nuova iniziativa: impastarono la farina di mais, di una specie gialla e bianca che avevano scovato, per caso, con l’aiuto della volpe, del coyote, del corvo e del pappagallo, nel seno di una montagna che nascondeva i chicchi nel suo ventre. Modellarono i primi quattro uomini, ma li dotarono di sensi troppo perfetti che permettevano loro di vedere sino all’infinito e di un pensiero che riusciva a cogliere e a d abbracciare tutto. Preoccupati per aver creato dei geni, troppo simili a sé, gli dei soffiarono loro sul viso e subito il loro sguardo si velò, la loro vista si ridusse. “Essi videro soltanto ciò che era loro vicino e soltanto quello che apparve chiaro ai loro occhi”. Gli dei diedero loro delle spose che si trovarono “con gioia al loro risveglio”. Ormai l’alba incorporava il cielo a levante e la stella del Mattino annunciava il sole. Quegli esseri umani, conoscendo il cerimoniale religioso, resero omaggio agli dei che approvarono e ricevettero i loro tributi: Contemplando la stella del Mattino, questi antenati dei Maya storici formularono questa preghiera:” Salve, o Creatore, o Formatore; tu che ci vedi e ci senti, non abbandonarci, non lasciarci mai. O Dio, tu che sei in cielo e in terra, dona a noi e alla nostra discendenza la prosperità finché il sole e l'aurora cammineranno nel cielo e le piante spunteranno sotto la luce. Permettici di camminare sempre per verdi sentieri e fa che noi siamo tranquilli e in pace con i nostri, che viviamo una vita felice; dacci perciò una vita, un’esistenza al riparo da ogni rimprovero, o Hurakan…Gukulmatz, o tu che generi e dai l’essere, fa che la germinazione abbia luogo e che ci sia la luce”.

E’ il caso di notare che, nel pensiero Maya, non è l’apparizione dell’uomo il punto culminante della creazione, ma quello dell’alba. E’ una bella lezione di modestia che fa dell’uomo un essere subalterno e accidentale. Inoltre ogni atto creatore, sia del mondo che dell’uomo, dei vegetali che degli animali, si compie regolarmente di notte e deve terminare prima dell’alba. Questo principio è rimasto in vigore tra i Quichè e i Chorti presso i quali, secondo Girard, “l’atto generatore si realizza soltanto di notte, come le cerimonie del culto agrario, perché entrambi sono la ripetizione dell’atto grandioso della creazione cosmica. Il coito, come la nutrizione, non sono semplici atti fisiologici, ma un rito attraverso il quale l’uomo si inserisce nel sacro…

I sacerdoti Chorti dicono che gli dei lavorano soltanto di notte: è in quell’occasione che fanno crescere la vegetazione; per questo motivo i preti devono agire nello stesso modo in cui agisce il gruppo teogonico che rappresentano. Un’abitudine così strana impone al ricercatore che ha il raro privilegio di assistere a quelle cerimonie, lunghe veglie di notte, in un ambiente profondamente mistico, in cui sente palpitare le vibrazioni intime dell’animo indigeno”.

Parallelamente a quella Creazione in più riprese si narrano altri miti, quali quelli dei due Gemelli, Hunahpu e Ixbalamqué: Hunahpu, il più importante dei due, “assolve a due funzioni” dice Girard; “è il Dio del Mais durante il periodo del lavoro nei campi, e il Dio del Sole durante l’estate. Le cerimonie del culto solare sono celebrate di giorno, in pubblico, poiché esse devono glorificare il Sole; al contrario quelle del dio agrario si svolgono di notte, perché è in quel momento che gli “agrari” lavorano, e sono segrete”. I due Gemelli trasformano in scimmie i loro fratellastri che li perseguitavano, poi, per mezzo di sortilegi e grazie alla fortuna, si impossessano dell’attrezzatura paterna del gioco della Pelota: guanti, scudi di cuoio, palle di caucciù…Il loro messaggero, il pidocchio, viene inghiottito da un rospo divorato da un serpente a sua volta morso da uno sparviero; la zanzara fa la spia e il loro complice, il moscerino, buca la secchia della loro nonna per farla ritardare. Questo è l’universo delle favole con il suo aspetto meraviglioso e il suo carattere incantato; con estrema rapidità gli alberi crescono a dismisura e le cerbottane si trasformano magicamente in canoe. Come gli eroi della mitologia greca, i nostri Gemelli affrontano cicli di prove dalle quali escono con esiti diversi, grazie al decisivo aiuto delle formiche, delle tartarughe e anche dei conigli. Essi sono anche eroi civilizzatori e l’epopea termina con l’enumerazione delle varie conquiste culturali di cui sono stati promotori: l’organizzazione sociale, l’architettura, i riti religiosi e anche la guerra.

Il Popol – Vuh comincia dal caos primitivo e finisce quando viene raggiunto un livello superiore di civilizzazione. Nel decalogo e nei meandri del racconto, sfruttando ogni minimo particolare, Girard si è sforzato di comprendere il significato esoterico, di cogliere il valore e la portata storiografica del libro “perfettamente intelligibile per i Maya Quiché”. La mitologia ha lasciato il terreno letterario per quello scientifico, constata Girard, “tanto più che vivere e agire in accordo con le norme mitologiche fu la costante ossessione del mondo Maya Quiché, la cui cultura resta essenzialmente mitologica, dato che la scienza e la storia non si erano ancora separate dalla religione”. E Girard constata che l’indigeno vive ancora in età mitologica; e questa è un’affermazione capitale per chi cerca di comprenderlo; questo però non vuole assolutamente dire che sia rimasto all’età del pensiero prelogico!
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:28
CALENDARIO E ASTRONOMIA



I preti erano depositari di tutte le conoscenze intellettuali e la religione, ancora una volta, si trovava intimamente fusa con l’astronomia, come con tutte le altre attività culturali, con le speculazioni aritmetiche, col computo del tempo e col calendario, di cui si è scritto che esercitò una vera e propria dittatura sulla vita dei Maya. Profondamente originale, unico nel suo genere, questo calendario rivela una precisione veramente sbalorditiva, tanto più se si tiene conto che i preti astronomi consideravano la terra piatta come un disco e non pensarono mai che girasse intorno al sole. Il sistema vigesimale – con una progressione di 20 in 20 – della loro aritmetica permetteva calcoli complessi per quanto riguardava lo studio dei fenomeni celesti, poiché toccava all’astronomia regolare e dirigere tutte le azioni della vita. Per i calcoli, essi usavano dei simboli semplici, ad esempio il punto per le unità, ed una sbarretta per la cifra 5; inoltre, dato che i Maya furono uno dei rari popoli che abbiano usato lo zero – simboleggiato da una conchiglia – con un millennio di anticipo rispetto all’Europa, essi poterono, proprio perché erano riusciti a dare una connotazione all’inesistente, dare un valore posizionale alle cifre e in tal modo fare calcoli assai complessi. Seppero, inoltre prevedere con esattezza le eclissi, e scrissero su delle tavole tutti gli spostamenti di Venere con una precisione che lascia ancora sbalorditi gli studiosi moderni. Il codice di Dresda, per esempio, da un totale di 11.960 giorni per 405 lunazioni considerate; orbene, gli astronomi attuale stimano tale durata pari a 11.959,89 giorni, il che corrisponde a un errore, o meglio a una differenza di poche ore per 380 anni. Inoltre gli astronomi Maya ritenevano che l’anno di Venere fosse pari a 584 giorni, e noi oggi sappiamo che esso equivale esattamente a 385,92 giorni, il che comporta un errore inferiore ad un’ora all’anno.

Questi risultati sono tanto più stupefacenti in quanto i Maya non disponevano di strumenti ottici, ne di un’unità di tempo pari all’ora e al minuto. In seguito alle ripetizioni dei calcolo, ad un po’ di “statistica” e alla trasmissione regolare dei risultai, essi correggevano man mano i dati empirici ricavati da una geometria dello spazio e da un’astronomia piuttosto sommarie. Tuttavia, secondo Thompson il calendario Maya era più preciso di quello gregoriano.

Una grande vittoria degli archeologi e degli storici moderni è consistita nel trovare il metodo di trascrizione delle cifre e delle date, il che ci ha permesso anche di poter finalmente collocare nel tempo il mondo Maya. Precisiamo questo sistema: abbiamo già detto che si basa su una numerazione vigesimale (di 20 in 20) e posizionale, il che significa che invece di riportare una cifra a sinistra dopo dieci unità, lo faceva dopo venti; i numeri acquistavano quindi una cifra in più al 20, poi al 400, poi all’8.000, al 160.000, al 3.200.000, ecc. La numerazione posizionale era resa possibile solo dall’uso del numero zero (una conchiglia). Una data Maya è formata da cinque cifre sovrapposte, e non disposte orizzontalmente come nei nostri numeri, il che non toglie che sia ugualmente una numerazione posizionale: la prima cifra corrispondente ai baktun, ognuno dei quali rappresenta 144.000 giorni trascorsi; la seconda cifra numera invece i katun (corrispondente a 7.200 giorni); la terza cifra da il numero dei tun (360 giorni); la quarta cifra indica l’uinal, cioè un mese di 20 giorni; la quinta cifra infine da i kini, che sono i giorni.

Una data quindi era fornita in giorni: la stele D di Copan, per fare un esempio, porta una data corrispondente ad un totale di 1.405.800 giorni trascorsi dalla data iniziale del calendario Maya, che in genere viene collocata nel 3113 (o nel 3373, secondo Spinden) prima della nostra era. Inoltre una data veniva fornita indicando la sua posizione nell’anno religioso e la sua posizione nell’anno solare.

D’altra parte queste date somigliavano molto, a prima vista, a piccole scene animate: a volte vi sono rappresentati dei personaggi, dei facchini, seduti per terra; in questi glifi complessi, solamente le teste devono essere prese in considerazione per il calcolo, ed il valore che rappresentano è riconoscibile, ad una analisi dettagliata, da particolari come dei punti oppure una mano appoggiata al mento, una mascella inferiore ossuta e scarnificata, una pettinatura stilizzata…Il resto del glifo – il corpo del facchino – che non aveva valore di calcolo, era completamente lasciato alla fantasia dell’artista. Secondo le concezioni Maya, in effetti, il tempo era continuamente trasportato nel futuro da alcuni dei che si davano il cambio e si alternavano di volta in volta per governare il mondo: il dio del giorno succedeva al dio della notte, e si caricava sulle spalle il fardello del tempo fissato con una cinghia frontale. I giorni erano esseri viventi, e ognuno di essi era sotto la protezione di un dio, diventava un dio lui stesso, con una duplice natura, una corrispondente al nome di una divinità, l’altra ad un numero. E le cifre, invariabili, avevano molta più importanza dei nomi, che potevano variare.

Come per tutte le civiltà di tipo agricolo, la determinazione del ritmo delle stagioni era indispensabile per assicurare il successo dei raccolti. Era infatti necessario lavorare i campi, seminare, effettuare il raccolto, nei momenti propizi e favorevoli; e il calendario aveva il compito specifico di determinare questi momenti. I Maya possedevano due calendari principali: il più semplice, il calendario sacro – il Tzolkin – era riservato alla divinazione e comprendeva duecentosessanta giorni suddivisi in tredici mesi di venti giorni ciascuno. Il programma delle feste religiose e di tutte le altre attività cerimoniali o private veniva stabilito in base a questo calendario.

Il secondo calendario – l’Haab – solare ed agricolo, era invece composto da 365 giorni suddivisi in diciotto mesi di venti giorni ciascuno, ai quali si aggiungeva poi, alla fine del ciclo, per far tornare i conti, un periodo malefico di cinque giorni, nefasti, vuoti, senza nome, detti di “ristabilimento”, o Uayeb, giorni critici durante i quali non si lavorava, ma si effettuavano digiuni e si osservava la continenza. Questi due calendari coincidevano soltanto a intervalli di 18.980 giorni, cioè ogni 52 anni, periodo di tempo assimilato al nostro secolo, sebbene più breve. Ognuno dei tredici Dei del Pantheon Maya regnava per un mese.

Esisteva poi un terzo metodo di conteggio, in cui interveniva l’anno venusiano, più lungo, poiché Venere compie solo cinque rivoluzioni nello spazio di otto anni solari. Per designare la durata, i Maya avevano poi concepito tutta una serie di periodi che progredivano con i multipli di 20, con l’eccezione del tun, il loro anno di 360 giorni, che corrispondeva a 18 uimal di 20 giorni.

Abbiamo già detto che il loro computo a base di cifre del tempo aveva inizio da una data zero di origine, fissa, che si fa risalire al 3113 a.C.. Questa data mitica, a proposito della quale ci si perde in congetture, potrebbe riferirsi a un evento astronomico dimenticato, o potrebbe forse indicare l’ultima delle loro quattro Creazioni del Mondo. Da parte sua Spinden ha stabilito una cronologia che fa slittare tutte le date di 260 anni indietro nel tempo (3373 a.C.), con una cronologia che sarebbe confermata da analisi effettuate con il metodo del Carbonio 14, ma che crea una discontinuità incomprensibile nel succedersi degli eventi tra i periodi più antichi e il periodo storico. Per questo motivo gli specialisti continuano ad attenersi alla cronologia di Thompson.

Quali mezzi possono aver utilizzato i Maya, che non avevano altri utensili che quelli di pietra, per giungere a conoscenze astronomiche e astrologiche di una precisione così strabiliante? Sembra in effetti accertato che non abbiano usato ne orologi a sabbia ne clessidre ne altri strumenti di precisione. I loro calcoli furono dunque basati esclusivamente su osservazioni oculari, calcoli di triangolazione e misure delle ombre, poiché essi erano sorpresi dall’osservazione che gli astri, e il sole in particolare, si presentavano sotto angoli che cambiano a seconda dei diversi periodi dell’anno. Allo stesso modo osservarono che la permanenza del sole nel cielo aveva durata variabile a seconda di quelle posizioni e si sforzarono quindi di determinare le date dei solstizi, cioè delle posizioni estreme, poiché si traducevano nel giorno più corto e più lungo dell’anno. Per queste osservazioni utilizzarono senza dubbio lo gnomone, una specie di mirino costituito da una semplice pertica posta verticalmente; l’ombra proiettata sul terreno, a mezzogiorno del 21 giugno (solstizio d’estate) da la proiezione più corta, mentre quella che si proietta a mezzogiorno del 21 dicembre (solstizio di inverno) è la più lunga. Se si effettuano osservazioni al sorgere del sole, i diversi angoli di visuale descriveranno un angolo diverso nel corso dell’intero anno, poiché il sole sorge in inverno più a Sud e in estate più a Nord, sulla linea dell’orizzonte, a Levante.

Queste osservazioni hanno potuto essere effettuate a Chichèn Itzà attraverso le feritoie praticate nei muri della torre – osservatorio ben nota, detta Caracol (lumaca), a causa della sua scala elicoidale. Ricketon e Morley hanno a loro volta dimostrato che un osservatore posto sulla cima della grande piramide detta E-VIII, a Uaxactun, vedeva il sole apparire nell’angolo Sud-Est della piattaforma con i tre templi, di fronte a se, all’alba del solstizio d’inverno, e nell’angolo opposto, a Nord-Ovest dello stesso podio, il mattino del solstizio d’estate. Nei giorni di equinozio, il sole sorge lungo l’asse mediano, proprio dietro al tempio centrale. Va da se che la disposizione di quei templi è stata subordinata e calcolata in funzione di queste osservazioni, e che questa combinazione è tutt’altro che accidentale, ma doveva avere la sua importanza. Inoltre essa presuppone un lunga tradizione di osservazione. Oltre all’osservazione diurna del cielo, anche quella notturna doveva essere non meno importante. L’osservazione delle varie fasi e delle traiettorie della luna fu riportata nel codice di Dresda, che si riferisce a 405 lunazioni, come abbiamo già detto, cioè a ben 33 anni di osservazioni. Il manoscritto riporta una tavola contenente 69 date durante le quali si possono avere eclissi solari. Venere, la stella del Pastore, la prima a risplendere, l’ultima a scomparire, con il suo corso irregolare attirò in egual misura l’attenzione, e i Maya si sforzarono di misurarne l’altezza sull’orizzonte, variabile al momento del sorgere o del tramontare del sole.

Come venivano calcolati gli angoli? Alcune illustrazioni dei codici ci mostrano, appollaiati sulle piramidi, dei personaggi ridotti al solo volto o addirittura ad un occhio, posti sotto un baldacchino che li protegge, vicino a due bastoni incrociati posto davanti a loro. D’altra parte, sono stati ritrovati anche dei tubi scavati nella giada, lunghi all’incirca venti centimetri, che ricordano stranamente gli occhiali astronomici cinesi, sprovvisti come questi di vetri ottici. Resta il fatto che tutte queste preoccupazioni, che andavano molto al di la dello stretto necessario per la costruzione di un calendario agricolo, mettono in luce un’ossessione dell’infinito, spaziale o temporale, e una angoscia profonda di fronte alle scorrere del tempo.

sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:37
Scrittura


I Maya elaborarono un metodo di scrittura geroglifica e registrarono la storia, la mitologia e i riti in iscrizioni scolpite e dipinte su lastre di pietra o colonne, architravi, scalinate, o altri monumenti.
Venivano inoltre scritti libri di carta ripiegata ottenuta dalle fibre di agave, contenenti informazioni di agricoltura, clima, medicina, caccia e astronomia.
Nel 1549, sette anni dopo la parziale conquista degli Indios Maya dello Yucatan, padre Diego de Landa arriva a Mérida, capitale dei territori. Si sforza con tutti i mezzi di estirpare le costumanze e le credenze del popolo che lo circonda, per convertirlo al Cattolicesimo.
A tale scopo egli giunge a servirsi di un procedimento che ritiene efficacissimo: un gigantesco auto-da-fè, in cui vengono bruciati tutti i libri indigeni.
La storia, la cultura, la tradizione di un popolo vengono in tal modo distrutte. Questo gesto inconsulto, irreparabile, sarà nonostante tutto minimizzato dal suo autore, che del resto non ne coglie la gravità.
Nel 1566 padre de Landa redige la Relacion de las Cosas de Yucatàn. Egli riproduce nella sua opera certi glifi calendari e segni ancora in uso nello Yucatàn al tempo del suo ministero. Li ha visti disegnati nei libri "blasfemi" che ha fatto bruciare e ce ne fornisce la trascrizione.
L'opera di distruzione di padre de Landa è stata purtroppo eseguita alla perfezione. Restano soltanto tre codici maya, tutti e tre scoperti in Europa, dove con tutta probablità erano stati spediti da monaci o soldati al momento della conquista. Si tratta del Codex Dresdensis, del Codex Tro-Cortesianus e del Codex Peresianus.
I codici consistono in lunghe strisce di corteccia di ficus, battute, impregnate di resina, poi ricoperte di un leggero strato di calce spenta sul quale sono dipinti glifi, cifre, immagini di dei e di animali, sempre con gli stessi colori: nero, giallo, verde, azzurro e rosso. Le strisce sono larghe circa venticinque centimetri , ma lunghe parecchi metri; esse venivano scritte prima su una e poi sull'altra faccia ed erano poi ripiegate a fisarmonica.
Il Codex Dresdensis, il piu prezioso, misura metri 3,50 di lunghezza e possiede 78 pagine. Appartiene alla biblioteca di Dresda dal 1739. Si tratta soprattutto di un trattato di astronomia, ma contiene anche numerosi oroscopi e alcune indicazioni sui riti. Proprio grazie a questo codice, E. Fostermann è riuscito a decifrare la struttura interna del calendario maya e del conto lungo.
Il Codex Tro-Cortesianus è il più lungo (m 7,15). Conta centododici pagine e si trova alla Biblioteca Nazionale di Madrid. E' in sostanza un libro di divinazione, una sorta di promemoria usato dai sacerdoti indovini.
Il Codex Peresianus è incompleto e in pessimo stato (m 1,45 di lunghezza). Possiede ventidue pagine. Tratta degli dei dei katun e delle cerimonie relative alla successione di undici di tali katun. Appartiene alla Biblioteca Nazionale di Parigi. I glifi di questi codici sono identici a certi glifi che figurano sui monumenti del Petén e delle regioni adiacenti, nonché a quelli dell'opera di padre Diego de Landa.
Grazie ad essi, si è potuta stabilire la stretta parentela culturale esistente tra i Maya delle terre del sud e i Maya dello Yucatàn.
Il Popol Vuh, ovvero "Libro del Consiglio", scritto in lingua maya con caratteri latini nel XVI secolo, ci fornisce informazioni sulla religione, la mitologia, l'emigrazione, la storia dei Maya Quiché, i cui discendenti vivono tuttora sugli altipiani del Guatemala. E' un libro d'importanza capitale.
Ma sono stati i Libri di Chilam Balam, resoconti in lingua maya scritti in caratteri latini nei secoli posteriori alla conquista spagnola, che ci hanno permesso di avere un primo ragguaglio storico dei Maya dello Yucatàn. Il loro contenuto è spesso oltremodo simbolico e contraddittorio.
Ciononostante, lo studio dei monumenti e gli scavi archeologici eseguiti nelle città maya dello Yucatàn hanno confermato, o chiarito, numerosi passi di questi preziosi libri indios.
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:37
Usanze e tradizioni


Alcune discutibili tradizioni dei Maya erano quelle di schiacciare il cranio dei neonati tra due assi per fargli assumere "artificialmente" una forma più piatta ed allungata.
Nonostante questa usanza potesse causare dei traumi nei bambini, aventi ancora le ossa fragili, questo aspetto fisico veniva visto positivamente perché era più simile a quello degli dei.
Un'altra usanza era quella di rendere strabici i bambini attraverso una pallina posta davanti gli occhi , perché anche questa caratteristica era simbolo di bellezza.
Molte tradizioni dei Maya sono state tramandate fino ai giorni nostri e vengono ancora rispettate dagli indios, come il rispetto per la natura (verso la madre terra), il matrimonio, la gravidanza, l'aiuto e la collaborazione tra le famiglie del villaggio.
La natura: la tradizione più importante riguarda il rispetto vero e proprio della natura; la terra viene considerata una vera e propria madre e le viene chiesto il permesso di coltivarla ad ogni semina o per ogni altra operazione agricola.
Il matrimonio: secondo le tradizioni maya, è il ragazzo ad andare a casa della ragazza interessata per fare la richiesta di matrimonio. Se la ragazza non acconsente subito, il ragazzo ha ancora due possibilità, terminate le quali non potrà mai più chiederla in sposa. Se la ragazza invece acconsente, il ragazzo deve chiedere il permesso alla famiglia della ragazza alla quale spetta la decisione finale.
Dopodiché si faranno varie riunioni fra i genitori delle due famiglie che, giunti all’accordo, prepareranno i festeggiamenti. Durante il rito del matrimonio, come in molti altri, parte della cerimonia viene celebrata in ricordo degli antenati.
La gravidanza: quando una donna è incinta, per il periodo della gravidanza non deve vedere nessun altro bambino e deve fare lunghe passeggiate fra i campi, per mettersi in contatto con la natura e per farla amare al bambino. Per il parto, anche ai giorni nostri, la donna non può recarsi all’ospedale perché le tradizioni lo vietano. Dopo il parto si brucia la placenta e il bambino rimane solo con la madre per otto giorni.
Dopo questo periodo il bambino viene presentato alla comunità con una grande festa.
Rigoberta Menchù, descrive dettagliatamente queste tradizioni nei suoi libri:
Elisabeth Burgos "Mi chiamo Rigoberta Menchù" ed. Giunti 1996
Rigoberta Menchù Tum "Rigoberta Menchù" ed. Giunti 1997
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:38
Il gioco della pelota


Questo gioco era praticato nell’ambito di tutte le grandi civiltà dell’America precolombiana.
Ogni città maya classica, possedeva uno o più terreni di gioco.
Quello di chichèn - Itzà è il più imponente di tutto il Messico e i tre edifici costruiti sul suo perimetro ne sottolineano la sua importanza: due piccoli templi (o tribune) alle due estremità del terreno e altri due imponenti templi servivano a delimitare l’area del campo.
Il terreno riservato al gioco (95x35 metri) era fiancheggiato per due lati da due alti muri nei quali erano infissi due grandi anelli di pietra. Due squadre partecipavano agli incontri.
I giocatori dovevano far passare la palla negli anelli di pietra. La palla era fabbricata in caucciù e doveva essere rilanciata solo con le spalle, le ginocchia o le anche.
La palla non doveva mai toccare terra; la squadra vincente era quella che aveva commesso meno errori.
Il capitano della squadra perdente veniva decapitato da un giocatore dell’altra squadra.

Calendario e religione


Il calendario maya, molto complesso, è il più accurato fra quelli conosciuti prima del calendario gregoriano.
L'anno, che iniziava il 16 luglio, quando il sole attraversa lo zenit, durava 365 giorni ed era suddiviso in 28 settimane di 13 giorni ciascuna.
I Maya, essendo politeisti, veneravano un gran numero di divinità della natura.
Benché i Maya fossero un popolo pacifico per quel che riguarda i rapporti con le altre popolazioni, erano comuni i sacrifici umani e i riti sanguinolenti che si facevano in onore del Serpente Piumato considerato il progenitore della stirpe.
Secondo le credenze maya, solo con il dolore ed il sacrificio si potevano espiare i peccati commessi. Tutta la città partecipava attivamente ai riti sacrificali; anche il re era soggetto di riti propiziatori attraverso salassi di sangue. Si procurava volontariamente delle ferite, si raccoglieva il sangue e lo si bruciava in nome degli dei.
La continua necessità di vittime sacrificali portava spesso all’utilizzo dei prigionieri di guerra; si pensa addirittura che spesso gli scontri tra due città avvenissero solamente per procurarsi schiavi e future vittime sacrificali.
sonardj
00martedì 20 novembre 2007 13:38
La leggenda del Serpente Piumato


All'arrivo degli Spagnoli, Quetzalcòatl rappresentava presso gli Aztechi il dio del vento. Simboleggiava anche l'acqua e la fertilità e, per estensione, la pioggia e la vegetazione o persino il manto verde della natura che si desta in primavera. Sedeva al primo posto nel pantheon di Teotihuacàn, la grande città teocratica degli altipiani del Messico centrale, assai prima che si verificassero le invasioni dei Toltechi e degli Aztechi.
Alla fine dell' VIII secolo, quando le tribù tolteche di lingua nahua, specialiste nei sacrifici umani, s'infiltrano nel territorio di Teotihuacàn e distruggono la città, adottano, secondo le loro tradizioni, il Serpente Piumato, cui danno il nome nahua di Quetzalcòatl (quetzal: piume preziose, e còatl: serpente).
Il Serpente Piumato si diffuse in tutto il Messico sulla scia dei feroci conquistatori. Col suo potere essenziale e benefico di "portatore di piogge", divenne ben presto la divinità tolteca predominante, al punto che il suo solo nome si rivesti di virtù magiche e finì col diventare il titolo supremo riservato ai re-sacerdoti di quel popolo.
Quando i guerrieri aztechi, del pari di lingua nahua, dilagarono a loro volta sugli altipiani a partire dal XIII secolo, raccolsero e assimilarono le tradizioni, le leggende e le gesta storiche dei cugini Toltechi.
Dalle loro cronache apprendiamo che il quinto sovrano tolteco, Quetzalcòatl, visse cinquantadue anni, dal 947 al 999. In realtà si chiamava Ce-Acatl (Uno-Canna) dal nome dell'anno di nascita; ricevette il titolo di Quetzalcòatl quando venne eletto re-sacerdote di Tollan, alla morte del padre.
Quetzalcòatl era un uomo di grande bruttezza: portava la barba, ma era casto, pio, giusto e benevolo. Fu un grande realizzatore. Con lui ha inizio l'età d'oro dei Toltechi.
Troppo breve, purtroppo; perché il sovrano di Tollan commise un grave errore.
Avendo tentato di abolire i sacrifici umani per sostituirli con offerte di fiori, incenso, farfalle e pane di mais, si fece numerosi nemici, particolarmente fra i capi guerrieri. Questi ultimi moltiplicarono le occasioni per far cadere in errore e in peccato il loro re.
Impuro, diventava automaticamente indegno del trono e poteva essere destituito. Tutti i loro tentativi fallirono, fino al giorno in cui gli offrirono uno specchio.
Spaventato dalla propria bruttezza e dalle proprie profonde rughe, egli acconsentì a bere un liquido ad alta gradazione alcolica per cacciare la sgradevole impressione. Cantò, bevve ancora, scordò ogni dignità e sprofondò in una triste dissolutezza. L'indomani il suo cuore era gravato dalla vergogna.
Preferì perciò lasciare Tollan e prese, col suo seguito, la strada di Tlapollan, in direzione est.
Quetzalcòatl morì l'anno uno-canna, un anno che portava lo stesso nome di quello della sua nascita, essendo vissuto cinquantadue anni, vale a dire un intero ciclo di tempo.
Alla sua morte, un altro importante ciclo prendeva l'avvio per cinquantadue anni. Il cuore di Quetzalcòatl raggiunse Venere, la stella del mattino, e il pianeta assunse da quel momento in poi il nome di Ce-Acatl.
Le cronache azteche insistono molto sul fatto che il re barbuto della città di Tollan, ossia della regione dell'ovest, paese del colore bianco, fuggì verso est, paese del colore rosso e nero, al fine di prendere il mare e perire tra le fiamme.
Questi racconti precolombiani aggiungono che Quetzalcòatl aveva dichiarato, prima della partenza, che sarebbe tornato da est per mare a restaurare il suo regno tolteco.
Questa predizione avrebbe notevolmente semplificato il compito di Cortés al suo arrivo in terra azteca. L'imperatore Moctezuma immaginò che la vecchia profezia si traducesse in realtà.
Tutto concordava: lo straniero portava la barba, era bianco, colore simbolico dell'ovest, e quindi di Quetzalcòatl, e giungeva da est, per mare, nell'anno uno-canna! Cosi', anziché schiacciare lo spagnolo appena sbarcato con le centinaia di migliaia di guerrieri di cui disponeva, si affrettò a fare offerte agli dei e doni a Cortés. Tra questi doni c'era la sontuosa acconciatura di piume di quetzat che era appartenuta, stando alla tradizione, a Quetzalcòatl stesso.
In tal modo Moctezuma consegnò l'impero azteco agli Spagnoli.

"Eppure questa cultura è sopravvissuta alle vicende secolari e dilata i nostri orizzonti con nuove valutazioni estetiche e applicazioni di moduli architettonici di una modernità sorprendente; così come i suoi testi più antichi ci incitano allo studio di originali modi di concepire l'universo, l'aldilà, il destino dell'uomo, le scienze, le arti, la funzione del pensiero."

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