L'ABBAZIA DI CASAMARI

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sonardj
00martedì 18 marzo 2008 13:49
L'ABBAZIA DI CASAMARI



di S. L.



L'Abbazia di Casamari è tra gli edifici più splendidi che adornano il territorio di Veroli. Questa città, che sorge in una zona saluberrima su uno sperone dei monti Ernici (una antica tradizione la vuole fondata dal Pelasgi), è talmente intrisa d'arte, nella razionalità di un assetto urbanistico che non ha subìto gli insulti del tempo, e nella bellezza dei suoi palazzi e dei suoi monumenti, da meritare l'appellativo di "Firenze della Ciociaria".

La città è distante da Roma 90 chilometri e si ricollega per la via Mària con Sora, da dove si raggiunge l'Abruzzo.

In Veroli echeggiano i ricordi, e permangono le testimonianze, di eventi storici e culturali di grande rilievo.

Fu soggiorno di diversi pontefici: Alessandro III (al secolo Rolando Bandinelli da Siena, protagonista di spicco degli avvenimenti politici, militari e dottrinari del secolo XII, autore della condanna dei Catari, pronunziata nel corso del terzo concilio lateranense), il quale dimorò nella chiesa di S. Erasmo, edificata da Benedetto da Norcia nel 529; Giovanni X, tenuto prigioniero nella rocca medioevale dalla famosa Marozia; Alessandro VI Borgia, che probabilmente vi redasse la bolla del 1501, con la quale indisse invano una nuova Crociata.

Studiarono a Veroli, nel "Ginnasio" creato nel 1538, insigni uomini di cultura di ogni tempo. La città diede i natali a tre umanisti: Giovanni Antonio Campana, Giovanni Sulpicio e Aonio Paleario, condannato per eresia e morto sul rogo a Roma il 3 luglio 1570.

Veroli fu anche la "cittadella" della menzionata Marozia, personaggio discusso e inquietante della nostra storia dell'età di mezzo. Politica abilissima, acquistò un grande potere con un complicato gioco di alleanze, favorito dal suoi tre matrimoni, con Alberico 1 di Provenza, Guido di Toscana e Ugo, fratellastro del secondo marito. Suo avversario dichiarato fu papa Giovanni X, del quale abbiamo già parlato, che tradotto in cattività a Veroli vi morì in circostanze oscure (ma non troppo). Ormai senza rivali, Marozia determinò la elezione di tre pontefici, Leone VI, Stefano VII e Giovanni XI, suo figlio. Pose fine ai suoi sogni di gloria e di grandezza Alberico il suo figlio di primo letto, al quale si deve forse la misteriosa morte della intrigante genitrice. A merito della quale va tuttavia ricordata l'intelligente e lungimirante opera svolta per la costituzione della Lega che nel 915 sconfisse i Saraceni al Garigliano.

Proprio all'epoca di Marozia in Italia si avvertì l'ondata rinnovatrice che, muovendo dall'Abbazia di Cluny, si propose di ricondurre alla severità delle regole istitutive gli ordini monastici. Questi infatti, dopo lo sfaldamento dell'impero carolingio, erano piombati in uno stato di profonda decadenza, sia per le devastazioni causate al conventi dalle scorrerie dei barbareschi, sia per la soverchiante intromissione, nel loro contesto, del potere secolare. Fu Alberico II, già citato, ad agevolare il diffondersi nel nostro paese di quella riforma, poi rinvigorita dall'azione dell'ordine cistercense (o cisterciènse) di cui fu vessillifero e divulgatore Bernardo di Chiaravalle.

Esaurita questa breve premessa di inquadramento ambientale, diamo inizio al discorso sulla Abbazia di Casamari. La vita monastica in quel sito ebbe origine nel 1009 (o nel 1036 secondo il Baronio), allorché quattro benedettini verolani furono autorizzati ad erigere un loro convento sui ruderi di Cereates, patria di Caio Mario, nemico di Silla e vincitore dei Cimbri e dei Teutoni, Dopo il Mille la località prese il nome di Casamari, in omaggio al grande console romano. Verso il 1140 i monaci di Casamari accettarono le regole cistercensi. La costruzione della magnifica Basilica, che è il centro emblematico e caratterizzato del monumentale complesso abbadiale, ebbe inizio nel 1203, quando Innocenzo III benedisse la posa della prima pietra, e fu ultimata nel 1217. Col tempo sono sorti, nell'ambito del perimetro della Abbazia, altri edifici; la stessa Basilica fu arricchita all'interno di sovrastrutture di dubbio gusto, per fortuna rimosse, così che oggi si presenta nella purezza delle sue linee duccentesche.

I lavori furono diretti da fra Guglielmo da Milano, ed eseguiti, non è un mistero, da una corporazione muratoria.

Esistono non pochi segnali che lo dimostrano, sebbene siano collocati e tracciati con quella cautela con cui i maestri operai erano soliti "firmare" le loro superbe costruzioni. Si scorgono, anche se a fatica, alcuni compassi, uno dei quali proprio all'ingresso.

A corporazioni muratorie si deve anche la realizzazione di altre strutture del complesso, fra cui il suggestivo chiostro, dove maggiormente affiora il simbolismo, portatore di quesiti e di problematiche.

A fianco di un capitello del colonnato si nota anzitutto l'emblema di Esculapio, ad indicare che una finalità degli ordini monastici, particolarmente all'epoca delle Crociate, era quella di dare assistenza medica ed ospedaliera a quanti si incamminavano verso la Terra Santa. In Italia ciò si verificò appunto lungo le grandi strade che conducevano al porti dai quali salpavano le navi, per l'Oriente, cariche di armati, di pellegrini, di avventurieri.

In un altro capitello ricollegabile allo stile ionico, tra le volute floreali di ornamento emerge uno scalpello anch'esso marmoreo. Quale intepretazione dare di quella vistosa (e apparentemente illogica) "scrittura"? Non è infondato ad un assunto di impronta spirituale: i "muratori" intesero rivolgere a coloro per i quali l'Abbazia era stata progressivamente edificata, l'invito a realizzare nel proprio intimo, e dimostrare con le proprie azioni, quel perfezionamento e quella attitudine magistrale di cui essi avevano dato prova nel levigare e armonizzare le pietre della loro opera architettonica?

Il caso più interessante lo offre però un terzo capitello del colonnato, che colpisce lo sguardo dei visitatori e ne suscita l'immediato interesse. Tra le volute, in tre piccoli motivi tondeggianti, sono raffigurati altrettanti volti: di Giovanni, che fu il primo abate cirstercense di Casamari, .al centro, di Federico II di Svevia e del suo segretario Pier della Vigne ai lati. Per molti la constatazione si esaurisce sul piano della curiosità, soddisfatta nell'apprendere che probabilmente si è voluto, in tal modo, ricordare che il monarca diede un notevole apporto alla costruzione della basilica. Tuttavia, anche sulla base di tale chiarimento, sorgono ben altri interrogativi che investono grandi problematiche di natura sia ideale sia storica.

Viene spontaneo chiedersi, infatti, perché una analoga e sapientemente umbratile testimonianza, resa in una forma oltre tutto inusitata, non venne riservata ai papi Innocenzo III ed Onorio III, che contribuirono anch'essi, largamente, alla realizzazione di quella sacra sede.

Per afferrare il significato recondito della singolare scenografia scultorea occorre indugiare sul maggiori avvenimenti politici, militari e religiosi che direttamente o indirettamente coinvolsero la vita del centro monastico casamariense.

Casamari fu visitata più volte da Bernardo di Chiaravalle nel corso della sua incessante attività. Il santo monaco (al quale Dante fa pronunziare la invocazione alla Vergine nel XXXIV canto del Paradiso) fu non soltanto inflessibile sostenitore della regola cistercense, ma anche protagonista e promotore di importanti eventi di quel turbinoso periodo storico. Egli fu, come suol dirsi, al passo con i tempi: tenne continui contatti con pontefici, regnanti, condottieri; condusse a termine numerose impegnative missioni, muovendosi con una frequenza ed una rapidità addirittura impensabili a quell'epoca. Non a torto è considerato l'iniziatore della grande diplomazia.

Una delle principali cure del monaco di Chiaravalle fu rivolta al rafforzamento ed alla sopravvivenza del regno cristiano d'Oltremare sul quale, pochi decenni dopo la conquista del Santo Sepolcro (avvenuta nel 1099) già si addensava la minaccia di una riscossa degli "infedeli". Bernardo comprese che occorreva insediarvi milizie permanenti che ne assicurassero il controllo in profondità, dal litorale all'entroterra, e organizzare una nuova massiccia spedizione per prevenire il piano di rivincita dei musulmani, di cui si era avuta una avvisaglia sintomatica nella riconquista di Edessa.

Bernardo diede anzitutto impulso alla istituzione dei Cavalieri Templari (1118): col sacralizzare l'uso delle armi, se impugnate in difesa dei Luoghi Santi, diede a quell'Ordine un crisma anche dottrinario, poi seguito dal riconoscimento formale da parte del Papato. I Templari furono il simbolo della lotta contro l'Islam, lotta che essi affrontarono - come ha sottolineato Aldo A. Mola in un recente saggio - sempre votati alla vittoria o alla morte. Diremo per inciso che le benemerenze acquisite, a prezzo di ardimento e di sangue, in Terra Santa, non evitarono all'Ordine la efferata persecuzione mossagli contro, dopo l'abbandono di Oltremare, dal cattolico Re di Francia Filippo il Bello con la acquiescenza di un debole pontefice. La persecuzione si concluse con la drammatica morte sul rogo dell'ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, e del Precettore di Normandia, Geoffroy de Charnay. Correva l'anno 1314.

Risolto il problema dello stabile insediamento di un robusto corpo armato in Oriente, Bernardo si diede a predicare la seconda crociata. Indusse il monarca francese Luigi VII e l'imperatore Corrado III a muovere per la Palestina. La spedizione, male coordinata, ebbe un esito militarmente non infausto, ma, di certo, fallimentare sotto il profilo politico, essendosi esaurita con l'assedio posto invano ad Edessa e Damasco (1147-1149). Il monaco di Chiaravalle ne rimase profondamente addolorato, come emerge dalla lettera consolatoria che gli indirizzò l'abate di Casamari. Il documento, di cui si conserva il testo, dimostra senza ombra di dubbio che proprio a Casamari Bernardo si adoperò nella preparazione della sfortunata crociata.

Prima che trascorresse un secolo la stessa Abbazia, dotata intanto della splendida basilica, si affacciò nuovamente alla ribalta della grande politica. Gerusalemme era caduta in mano dei musulmani nel 1187 e la terza e quarta crociata si erano concluse senza esito. Innocenzo III ne aveva bandita una quinta, confermata dal successore Onorio III1. Una prima spedizione (1217-1221), cui parteciparono i re di Ungheria e di Cipro, il monarca esule di Gerusalemme, Giovanni di Brienne ed il duca d'Austria, conquistò Damietta; sconfitta però ad Al-Manshúra fu costretta a desistere dall'impresa. Fu allora che Onorio III chiese l'intervento di Federico Il di Svevia. Nel "Cartario" della Abbazia di Casamari venne annotato il loro incontro, avvenuto nell'aprile 1221, e protrattosi a lungo tra le discrete pareti del Capitolo. Come è noto il monarca svevo, scomunicato nel 1227 dal nuovo pontefice Gregorio IX per un ritardo (pare giustificato) nell'avviare la sua spedizione, partì l'anno dopo per l'Oriente con un forte esercito. Il sultano d'Egitto Al-Kamil col trattato di Giaffa gli cedette il regno di Gerusalemme, di cui lo stesso Federico cinse la corona, che oltre tutto gli spettava per i diritti pervenutigli da Isabella di Brienne, sposata in seconde nozze. La storiografia liquida col riferimento a quel trattato l'esito favorevole della crociata. Ma sembra impensabile che Al-Kamil rinunziasse ad una parte considerevole dei suoi domìni, se non costrettovi da un duro rovescio militare o da una minacciosa e incontenibile pressione armata.

Perché l'impresa di Federico II, storicamente clamorosa, è stata ridotta ad avvenimento quasi secondario, contenuto nei limiti grigi di un negoziato?

La ragione potrebbe essere individuata nel complicato quadro politico del tempo. Dice molto, al riguardo, questa circostanza: mentre il monarca svevo era impegnato nella riconquista del Santo Sepolcro, il Papato radunava in Italia truppe per devastarvi il suo regno. Federico II fu in lotta contro i regnanti che sostenevano il primato del Potere spirituale su quello temporale, e rimase soccombente: non vi è da meravigliarsi se gli annalisti di allora, perché della parte avversaria o perché mossi da conformismo, ne sminuirono i meriti (ed enfatizzarono i suoi demeriti, più supposti che veri).

Alla luce di quanto precede, la "trilogia" del capitello potrebbe assumere un significato ben più ampio di quello accennato. Ci spieghiamo, pur ammettendo che forse la fantasia scalza il ragionamento.

Al centro, lo abbiamo detto, figura l'abate Giovanni, poi beatificato; al lati, al suo stesso livello e non già in posizione subalterna abbiamo due personaggi che l'illiberale mentalità dei secoli bui condannò severamente, tanto che Dante li collocò nel profondo dell'Inferno. Forse non è azzardato affermare che i monaci di Casamari, con la sensibilità affinata nella secolare pratica culturale, abbiano inteso lasciare un messaggio "a futura memoria" e scolpito nel marmo per assicurame la perduranza. Un messaggio che dimostra la caducità dei giudizi umani troppo spesso condizionati dalle passioni. Un messaggio che è un invito rivolto al posteri (che invero lo hanno recepito) a dare a Federico II, grande monarca, grande umanista, grande iniziato, e realizzatore del sogno di Bernardo, il posto che gli compete nella storia.



(tratto da "Hiram" N.11, novembre 1987, pag.334 - Ed. Società Erasmo)
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