Dalla caverna al mitreo

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sonardj
00martedì 18 marzo 2008 15:31
Caverne e grotte, naturali o artificiali, giocano un ruolo simbolico di primo piano nelle concezioni magico-religiose della preistoria e nel più evoluto culto solare del dio Mitra

Dalla caverna al mitreo

di F. I. e G. S.

Pur con un diverso sviluppo, da semplici raffigurazioni stilizzate a vere e proprie scenografie, e pur con diverse varianti, nei tipi animali o umani rappresentati, l'arte parietale e rupestre si sviluppa in modo generalmente costante dal periodo Aurignaziano (attorno al 30.000 a.C.). Tale costanza di temi e presumibilmente di ideologie, riscontrata dagli studiosi in un periodo che abbraccia oltre 20 millenni in una zona vastissima che si estende dagli Urali all'Atlantico, testimonia l'importanza della caverna nella preistoria e nelle prime tappe della storia dell'Umanità. Non soltanto come luogo privilegiato in cui la civilizzazione ha compiuto i primi passi e ha articolato le prime parole in forma ideografica, ma come "topos" sacro che si è inciso nella memoria ancestrale della razza. Niente di più ovvio, quindi , che il pensiero più evoluto dal punto di vista magico-religioso abbia sempre avuto presente la Caverna come mitologema legato alla madre Terra e che, in epoche a noi molto vicine, si siano sostituite alle caverne naturali quelle artificiali delle cripte, dei sotterranei, degli ipogei.

Si potrebbe obiettare che cripte e ipogei, come ad esempio quelli mitriaci (di cui ci occupiamo), non sempre sono legati a culti ctonii o terrestri, o lunari, o matriarcali. Ma il fatto che essi siano spesso legati a culti solari, celesti e patriarcali è soltanto un'apparente antinomia. Difatti, in questi tipi di culto, che hanno inglobato in sé credenze più antiche (e sono il frutto di un notevole salto di qualità, per esempio segnano il passaggio da calendari lunari a calendari solari, o perlomeno a calendari lunari "riveduti e corretti"), la discesa nella terra e il rituale di iniziazione svolto nella caverna-tempio artificiale e simbolica, rappresenta un recupero della coscienza primigeniamente formatasi, una morte allegorica del candidato per rinascere alla luce "nuova" del mondo dello spirito che ha soppiantato il vecchio schema.

Ma qual era questo vecchio schema? Che cosa passava per la mente dell'uomo primitivo? Quando gioiva o soffriva? Aveva speranze e quali? Nessuno potrà mai dare un'esauriente risposta a questi interrogativi Né antropologi o storici delle religioni possono pretendere di spacciare per verità inoppugnabile qualche ipotesi basata su pochi ritrovamenti e tante congetture. Semmai sono la psicologia del profondo e quella immaginale che ci aiutano a ipotizzare, con molta fantasia, la situazione dell'uomo primitivo pur così lontano da noi dal punto di vista fisico, psicologico e intellettuale.

Il primo dato obiettivo (nel senso di una relativistica ipotesi antropologica) che si dev'essere inciso per generazioni nei sensi e nell'anima dell'uomo primitivo è quello della dualità del giorno e della notte.

Il giorno è caldo (in epoche e zone non glaciali), luminoso, "buono". Consente di trovare i frutti della terra e la cacciagione. Consente di vedere e aggirare gli ostacoli o di sfuggire i pericoli.

La notte è fredda, oscura, "cattiva". Costringe al riparo e al sonno indifeso, preludio della morte alla quale somiglia. La notte è paura, abisso insondabile, orrore agghiacciante, scommessa fatale sull'incerto ritorno del sole.

In queste condizioni, lo stanziamento in caverne naturali deve aver rappresentato una specie di condizione "paradisiaca".

"Il Paradiso - ha scritto William Alexander Mc Clung della University of California, nel suo libro 'Dimore celesti'- è il luogo più straordinario che si possa scoprire ove una visione immateriale e una struttura materiale o un sistema di rapporti si uniscono o dipendono l'una dall'altra". Se poi si considera che per Mc Clung il Paradiso è presente "in ogni entità fisica, bosco, giardino, o città" ma anche - possiamo aggiungere - caverna, prima ancora che l'architettura si appropri di questo mito e lo riproduca nei templi per racchiudere lo spazio celeste o per trasferire sulla terra le proprietà del cielo, si ha a disposizione una chiave interpretativa utile a capire la situazione dei nostri antenati cavernicoli.

Dalla caverna, specie se esposta a Sud, l'uomo ha potuto osservare il moto apparente diurno del Sole, dal suo sorgere, allo Zenit, al tramonto; e lo stesso discorso vale per il moto apparente notturno della mutevole Luna (per lo meno, quando è visibile, cioè più o meno dal primo quarto, al plenilunio, all'ultimo quarto), o per il corso di Venere mattutina o vespertina (ritenute due realtà distinte dagli antichi Romani, tanto da divinizzarle in Castore e Polluce, che solo più tardi furono abbinati alla costellazione dei Gemelli), o per il moto sempre apparente degli altri pianeti nella fascia zodiacale.

Queste impressioni sensoriali, registrate per secoli e via via arricchite, hanno consentito la graduale comprensione di altre dualità, di altre alternanze che derivano da quella principale del giorno e della notte, per esempio: l'alternanza dei ritmi stagionali nel due periodi primavera-estare e autunno-inverno, successivamente differenziati e attribuiti ai quattro punti cardinali; il caldo e il freddo; il sonno e la veglia; la nascita e la morte; il piacere e il dolore. Dall'osservazione, dal ricordo e dalla speculazione sia pure rudimentale su queste e altre alternanze sono nate le prime applicazioni pratiche dei princìpi teorici su cui l'intelligenza dell'uomo cominciava a lavorare. Dalla teoria alla pratica, certo, i passi non sono stati brevi, ma sicuramente l'analogia, questa legge fondamentale oggi troppo negletta, che esprime con un semplice avverbio (come) la somiglianza fra le cose, dev'essere stata il volano della civiltà ai suoi primordi. Dall'intelligenza analogica del "come" avvengono certi fenomeni naturali, l'uomo ha tratto la capacità di soddisfare i suoi bisogni primari, come singolo individuo o come membro di un nucleo familiare, di un clan, di una tribù, di un'etnia o di un popolo, passando gradatamente ai bisogni "secondari", cioè a esigenze meno materialistiche, quali quelle sentimentali-affettive-animiche o a quelle mentali-intellettuali-spirituali.

Fatta questa lunga ma doverosa premessa è possibile ora approfondire il significato magico-religioso della caverna artificiale in un culto, quale quello mitriaco, che ha sempre evidenziato nell'architettura dei propri templi, quasi sempre inseriti in una o più pareti di roccia viva o disseminati di "finte" rocce e asperità in pietra pomice, il legame ancestrale e simbolico con la caverna preistorica.

Nella Roma del III secolo d.C. il culto del dio persiano (ma anche vedico) Mitra, "dio della luce","dio invincibile e guerriero" si era tanto diffuso, attraverso la mediazione dell'Asia Minore, da contendere il primato al messaggio evangelico. "Se il cristianesimo fosse stato interrotto nel suo sviluppo da qualche colpo mortale - ha scritto Renan -il mondo sarebbe stato seguace di Mitra".

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Il Dio Mitra che sacrifica il Toro cosmico per il bene dell'Umanità

Il dio raccoglieva numerosi adepti fra le legioni romane di stanza lungo il Reno e il Danubio, in Bretagna e in Africa e l'aristocrazia romana ostentava insegne e decorazioni che testimoniavano l'iniziazione ai misteri di Mitra. I mitrei erano disseminati a Roma, a Ostia (ne sono stati trovati una dozzina) in tutte le città lungo le grandi strade che collegavano l'Impero, nelle valli del Rodano e della Saona e fino in Inghilterra. "In origine- ha scritto Robert Turcan in ‘Storia delle religioni della Laterza’- si tratta di grotte: di esse i santuari conserveranno il nome e l'aspetto, anche quando cominceranno a tendere alla forma e alle dimensioni di 'templi' veri e propri. Un teorico del mitraismo, Eubulo, che Porfirio cita nel suo 'Antro delle ninfe', faceva risalire ai tempi favolosi di Zoroastro la consacrazione di grotte naturali, fiorite e bagnate da fonti. Sono stati ritrovati mitrei addossati a una o due pareti di roccia, con l'immagine di Mitra direttamente intagliata nella pietra viva: per esempio a Bourg-Saint-Adéol. A Epidauro (Dalmazia) e vicino a Costanza (Romania) il mitreo è una grotta vera e propria. Spesso si tratta di una cripta sotterranea o seminterrata. Quando la natura del suolo non si prestava, come a Londra o a Ostia, si costruiva all'aperto. Il piccolo mitreo di Londra aveva così l'aspetto di una basilica cristiana. Per conservare alla nicchia che serviva da abside una parvenza di grotta, la si disseminava di pietre pomici e di asperità artificiali".

Uno dei mitrei di più facile accesso a Roma è quello sul quale è stata edificata la basilica di S. Clemente. La zona era prossima al lago-palude dell'area "Cerolia"(dove c'erano stati insediamenti palafitticoli), su una specie di "insula" tra il Colle Oppio e le pendici del Celio, ottima per l'installazione di un edificio per il culto, anteriore a quello ritrovato che è attribuite alla fine dell'età domiziana (90-96 d.C). Gli esiti disastrosi dell'incendio neroniano e il conseguente rialzamento della zona di edificazione, tuttavia, non consentono di formulare alcuna coerente ipotesi sulla forma complessiva dell'edificio che aveva la copertura a volta degli ambienti e presenta una tecnica costruttiva riferibile al periodo claudiano o al primo decennio neroniano.

Il mitreo di S. Clemente doveva, comunque, rispondere ai canoni suaccennati: la presenza di una antro o di una grotta vicino a una fonte (fons perennis). Di forma rettangolare, esso era probabilmente costituito da più livelli; quello superiore costituiva l'aedes o tempietto dove poteva accedere il pubblico per venerare l'ara, con la statua di Mitra, e per assistere al sacrificio del toro. Il livello inferiore era lo spelaeum, riservato al soli uomini, iniziatí dopo aver superato determinate prove. Lo speléo, a cui si accedeva da una porta sormontata da tre finestre, ha la volta a sesto ribassato, (in altri mitrei, il soffitto era dipinto con un cielo stellato) adorna di pomici, mosaici e di 11 pozzi: 4 grandi, a forma di piramide tronca, e 7 a forma di tronco di cono. Ai lati vi sono due banconi (podia o praesepia), a cui si accedeva tramite gradini sistemati a Nord e a Sud della cella, sul cui fondo (a Ovest) si trova una piccola ara, ornata sulle quattro facce da rilievi raffiguranti Mitra che immola il toro, due dadofori o portatori dì fiaccole (i loro nomi erano Cautes e Cautopates e si ritiene che fossero due aspetti di Mitra), e un grande serpente; nella parete di fondo era ricavata una piccola nicchia. Sembra che esistessero 7 porte: una aperta sul podio, a sinistra, entrando, una in fondo, una all'entrata e quattro agli angoli. Quasi a significare, come tramanda Celso, le sette porte per le quali passavano le anime dei mortali, oppure i 7 gradi dell'iniziazione ai misteri di Mitra correlati ai 7 pianeti visibili a occhio nudo.

Le pareti, infine, erano costruite in opera laterizia, finemente lavorata, costituita da mattoni di color rosso e dipinti di color rosso (forse un legame con l'ocra rossa che ornava le pareti delle caverne preistoriche o forse un legame più "sottile" con il significato "magico" di questo colore). I successivi strati di stucco, spessi a volte 7 centimetri, indicano che il luogo era stato costantemente sistemato e curato.

Ma torniamo ai 7 gradi dell'iniziazione, i cui emblemi sono stati ritrovati nel mitreo di Ostia detto "di Felicissimo" (grazie a un "ex voto" dedicato da questo oscuro personaggio a ornamento del tempio): il primo è quello di Corax (corvo)e ha l'attributo del Caduceo (legato a Mercurio), con il compito di inserviente nei banchetti sacri; il secondo è Nymphus (sposo, legato a Venere), che per simboli ha un diadema e una lampada, veniva chiamato "luce nuova" e riceveva una prima istruzione su "gli occulti"; il terzo è Miles (soldato, legato a Marte) che doveva superare la prova dell'Acqua e del Fuoco e passare attraverso una morte allegorica (i suoi emblemi erano una lancia e un elmo); il quarto è Leo (leone, legato a Giove) che veniva purificato con il miele e provvedeva alle offerte sacrificali e alla bruciatura di incenso e altre resine (aveva per attributi la pala per il fuoco, il sistro, simile a quello di Iside egizia, e lo scarabeo); il quinto è Persa (persiano, legato alla Luna), che è definito il custode "dei frutti" o "delle messi" (le stesse messi che sgorgano dalla ferita inflitta da Mitra al Toro) e ha perciò per principale attributo la falce della mietitura; il sesto è Heliodromus (il corriere solare, legato all'astro del giorno) che ha per attributi la torcia (la stessa di Cautes e Cautopates), la frusta e la corona; il settimo è il Pater o il Pater Sacrorum (padre o padre delle cose sacre, legato a Saturno) che era a capo della comunità e aveva per attributi la mitra frigia a fanoni, la bacchetta e l'anello. Questi emblemi, ha scritto Robert Turcari , ne fanno l'equivalente di un vescovo. "A lui - ha aggiunto - devono presentarsi i candidati per le istruzioni preparatorie ed egli presiede alla loro consacrazione. Al di sopra di lui, il Padre dei Padri ha, in Roma, il ruolo di un pontefice".

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Il mitreo di Felicissimo a Ostia

Con il successivo affermarsi del Cristianesimo quasi tutti i luoghi di culto mitriaci vennero murati o distrutti (a volte anche profanati o saccheggiati, come accadde nel 377 quando il Prefetto di Roma volle dimostrare così il suo zelo di neofito cristiano). Su molti di essi vennero tuttavia, costruite, chiese cristiane; nel caso di S. Clemente, non tutto il mitreo venne occupato o distrutto.

Per una strana coincidenza, sia per i mitriaci, sia per i cristiani, la domenica era il giorno sacro dedicato, per i primi al Sole, e per i secondi al Signore. Lo stesso è accaduto per la festa più importante dell'anno, il 25 dicembre, Natale, che per i mitriaci serviva al culto del Dies Natalis Solis Invictus. Anche questa, forse, è una coincidenza.

(tratto da HIRAM, n.2, febbraio 1987 - Ed. Erasmo, Roma)
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