Doom 3: Resurrection of Evil - Pc (Recensione)

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tenorsax1
00venerdì 29 aprile 2005 22:25
Perseverare diabolicum…
Dispiace tirare in ballo personaggi come Oscar Wilde trattando di umili giochini, ma Doom 3 è stato il gioco che prima e dopo la sua uscita ha meglio incarnato l’aforisma del “…purché se ne parli”. Fulcro della più grossa operazione di hype indotto che il mercato videoludico ricordi, pomo della discordia in discussioni forumistiche senza precedenti quanto a violenza verbale, pietra filosofale di tutte le aste in web nei giorni immediatamente precedenti al rilascio, il controverso papà-e-nipote-di-se-stesso ha spaccato piuttosto equamente i pareri dei giocatori e si è in ogni caso goduto il suo bel tempo di gloria in barba a chi (noi di Ludus in prima linea) ne ha sottolineato la povertà di idee mascherata sotto ad un motore grafico fortemente NextGen. Nel bene e nel male bisogna ammettere come in un periodo di coagulazione di generi e di proliferazione di ibridi, D3 abbia segnato il picco tecnicamente più alto degli sparatutto alla vecchia maniera, quelli per intenderci del molto piombo e poco fosforo. Una cosa questa che, oltre a decretarne l’ottimo successo specie nei confronti dei gamers più stagionati, lo ha scantonato parzialmente dall’onere di paragone una volta comparso in scena il ben più complesso ed ambizioso Half Life 2. Dopo aver testato alla morte Resurrection of Evil, prima espansione ufficiale di D3 ad opera di Nerve “ReturnToCastleWolfenstein” Software, una domanda è sorta dunque spontanea: era proprio necessario rimettere tutto in discussione?

La farina del diavolo
Cronologicamente parlando, le vicende di RoE seguono a breve distanza quelle di Doom 3. Nella fattispecie i panni vestiti dal giocatore saranno ancora quelli di un anonimo marine (attenzione: non lo stesso anonimo marine della volta precedente) fiondato sul pianeta rosso a causa di labili pretesti, scremato della sua compagnia a causa di ingerenze demoniache e scarrozzato su un sentiero pressoché inverso a quello originale a causa di obbligati riutilizzi delle vecchie locations. Ciò che più conta però è che l’espansione segue a breve distanza la roboante pubblicazione di HL2, e questo influenza pesantemente le considerazioni in merito alle novità introdotte. Episodio unico nel suo genere, infatti, RoE non si limita ad espandere il potenziale del titolo base riproponendo la classica manciata di nuovi livelli e nuove creature. Se considerato solo in base a questi requisiti il capitolo aggiuntivo sfornato da Nerve risulta anzi piuttosto deficitario, in virtù delle poche autentiche new entry e del ridotto (e reiterato) numero di stage. Nossignori, il pregio autentico e l’autentica sciagura di questa resurrezione risiedono nel tentativo operato dai programmatori di innestare meccaniche di gioco innovative (ma non nuove) sopra un impianto fieramente e marcatamente tradizionalista. Ecco allora comparire, all’interno degli angusti corridoi dell’istallazione marziana, due speciali ospiti già noti per la loro capacità di animare scontri acrobatici all’interno di spazi decisamente più ariosi: il signor Bullet Time e la signora Gravity Gun.

Gravità di circostanza e un cuore grande così
Allergica ai malefici tasti speciali che dovrebbero distinguere lo shooter tattico da quello tout-court, la serie ha sfrondato anche l’ultima distrazione dal tre-volte-benedetto “fire” incarnata in passato nel pulsante “azione”. Logica conseguenza della cosa (e, come vedremo più avanti, ilare paradosso), anche le movenze speciali approntate in RoE saranno delegate all’impiego di strumenti attivabili col tasto fuoco. Il primo dei nuovi ordigni, un artefatto demoniaco cugino del Soulcube, fa la sua comparsa fin dalla sequenza di apertura nella sinistra forma di una pompa cardiaca cresciutella e munita di occhietti. Senza svelarne i reconditi segreti, ci limiteremo a affermare che dalle sue pulsazioni trarranno linfa vitale sia la (striminzita) trama di gioco sia la (corposa) ricalibratura del gameplay. Ottenutone il risveglio dopo la prima scaramuccia con un boss e rimpinguatane la sete di potere per mezzo delle anime dei cadaveri comuni, riconoscibili grazie alla totale immobilità e all’aura rossastra, il cuoricione svelerà il suo potenziale rallentando oltremodo il tempo dell’ambiente circostante per pochi e preziosissimi secondi. Nella breve parentesi di relax concessa, il giocatore potrà aggirare a velocità supersonica i pochi enigmi ambientali e risolvere a suo favore i numerosi scontri a fuoco previsti dal canovaccio. Basta questo a conferire alla sonnacchiosa routine del primo titolo una sterzata strategica non da poco. Sebbene ridondante nelle fasi iniziali del gioco, la feature e i suoi successivi potenziamenti saranno indispensabili in vista di un epilogo capace miracolosamente di rivaleggiare, per densità di popolazione ostile, con i Doom dei bei tempi che furono. Di matrice più sospetta è l’implementazione alla maniera doomesca della Gravity Gun (arma capace di interagire con gli oggetti resa celebre da Half Life 2, per quei pochi che non lo sapessero). Introdotta con l’altisonante appellativo di IonizedPlasmaLevitator e prontamente nomignolata “grabber”, la pistola acchiappatutto puntualizza sin da subito alcune rigide norme di comportamento. Pur concedendo la possibilità di manipolare e scagliare i corpi vivi e scalcianti dei nemici di ridotta pezzatura, nonché i proiettili di quelli più massicci, il meccanismo del grabber concederà limitate libertà interpretative a causa del suo funzionamento “a carica”. In buona sostanza: una volta risucchiato l’oggetto dei desideri, sia esso barile di carburante, bolla di plasma o teschiaccio in fiamme, una barra indicherà il tempo limite per deciderne le sorti, pena la perdita del potere attrattivo dell’arma. Nel tentativo di diversificarsi dalla sua “velata” fonte di ispirazione, la meccanica messa in atto con questo espediente costringerà il giocatore a scelte ardue da compiersi alla velocità del suono. Se la perdita ed il conseguente riacchiappo di un oggetto saranno infatti fastidi di poco conto mentre si starà realizzando una piramide di casse in una stanza deserta, la stessa cosa non potrà certo dirsi nel caso in cui si starà battagliando con l’inferno a suon di fusti di kerosene infuocati. Con le ovvie precauzioni del caso, quelli descritti sopra sono due elementi che denotano la scelta, da parte di Nerve, di rinfrescare almeno un poco le rugginose meccaniche di Doom 3. Peccato dunque che proprio da tali elementi scaturisca il maggiore equivoco del gioco.

Strumenti del demonio
Come gli appassionati ben sapranno, uno degli aspetti maggiormente discussi di D3 consisteva nel pedissequo switch tra arma e torcia imposto dalla opprimente malaillumiazione degli ambienti di gioco. Colpo di genio atmosfera\inducing per alcuni, immane boiata per altri, il giochetto del ti-vedo-non-ti-vedo aveva il merito se non altro di scaldare i neuroni del player un grado più in là del solito spara-ricarica-spara, avvallando persino la sensazione di trovarsi di fronte ad un survival horror giocato in soggettiva. Appesantito nel finale solo dall’introduzione del Soulcube, il metodo di controllo serviva egregiamente allo scopo di alternare con efficienza i molti strumenti di offesa necessari (le armi, per capirci) e l’unico strumento di indagine (la torcia). Ebbene, l’agilità di un sistema siffatto è andata completamente persa in RoE. L’immediata disponibilità del cuoricione, l’impiego versatile del Grabber e l’obbligato (ri)utilizzo della torcia si traducono infatti in un sistema di switch che da uno si fa improvvisamente trino, imponendo una battuta di arresto alle dinamiche plug&prey del “vecchio” Doom. Complice certo la scarsità di situazioni di autentico bisogno, i divoratori di lunga data del titolo ID potranno virtualmente ignorare la pistola a gravitazione per larga parte del gioco. Di contro, il numero elevato di nemici presenti mediamente in ogni area una volta doppiata la boa del quinto livello farà sì che nemmeno loro possano permettersi il lusso di rinunciare al tempo rallentato. Ci troviamo dunque di fronte ad un Doom 3 più “meditato”? Ahinoi, no. Quelle che avrebbero dovuto essere buone notizie per chi ha snobbato l’eccessivo semplicismo del titolo originale, infatti, si sono dimostrate una condanna per Resurrection of Evil.

L’inferno delle buone intenzioni
Considerate singolarmente e sperimentate sul campo nei livelli iniziali, le novità introdotte lasciano piacevolmente sorpresi e ampliano notevolmente il ridotto bagaglio tattico di D3. In confronto al classico “impugna il fucile e apri la porta”, le inedite combinazioni rese possibili dal tempo rallentato e dalla manipolazione degli oggetti danno l’impressione di star giocando effettivamente a qualcosa di diverso dal solito action shooter. L’impressione è purtroppo destinata a durare lo spazio di un paio di livelli. Giusto il tempo per rendersi conto che gli enigmi ambientali, improntati saggiamente sull’utilizzo delle nuove feature, sono stati inseriti solo per dovere di tutorial e non si ripresenteranno più nel corso del gioco. E giusto il tempo per rendersi conto di come gli ambienti mediamente più ampi delle fasi iniziali siano destinati a lasciare ben presto il posto alla familiare, sconfortante e buia carovana di stanzette-corridoi-stanzette. Innestate a forza nel vecchio supporto e contrite dal moltiplicarsi delle forze ostili, quelle che inizialmente sono state salutate come migliorie diventano invece inutili ridondanze o peggio, mali necessari. Quello che mostra per primo la corda è il grabber. Veicolato dal motore fisico un po’ meno ambizioso di quello di origine, il pistolone gravitazionale produce effetti ben poco convincenti spedendo casse d’acciaio a rimbalzare come fossero di gomma e inchiodando letteralmente sul posto i nemici nel caso si decida di utilizzare tali casse come armi. Comoda per risparmiare qualche bossolo durante i frequenti battibecchi con Imp e Vulgar, anche la possibilità di rispedire al mittente i dardi scagliati diventa inutile di fronte a forze numerose o composte da nemici di tipologie differenti. Come se non bastasse, l’effetto di distorsione della visuale unito alla generale scarsa illuminazione e al non trascurabile ingombro degli oggetti afferrati fanno del tiro al bersaglio un’impresa notevole. Insomma, ben presto si comprende che l’unica vera utilità di questa sorellina minore della Gravity Gun è la sua capacità di afferrare munizioni, armature e medikit senza obbligare il giocatore a camminarci sopra. Se anche i programmatori se ne fossero resi conto, probabilmente avrebbero evitato di inzeppare di suppellettili removibili i già angusti ambienti di gioco. L’artefatto stoppatempo dà vita ad una diversa gamma di problemi. Sostanzialmente, per evitare l’abuso ingiustificato delle sue tre preziosissime cariche è indispensabile essere certi di non poterne fare a meno. La qual cosa significa impugnare il cuoricione, attivare i nemici presenti nell’area e ricorrere al tempo rallentato se questi si presentano in dose troppo massiccia per un combattimento a velocità normale.

Due grosse pecche affliggono questo sistema. La prima somiglia ad uno di quegli enigmi da crampi al cervello che di solito viaggiano via e-mail, e recita: “Se impugno l’artefatto, non posso impugnare la torcia. Se non posso impugnare la torcia perché impugno l’artefatto, non posso vedere quanti nemici mi sono comparsi attorno. Se non posso vedere quanti nemici mi sono comparsi attorno, non posso sapere se mi conviene usare l’artefatto”. La seconda è l’oceanico assembramento di nemici che, nei livelli avanzati di gioco, costringe anche il player più irriducibile al forzato utilizzo del tempo rarefatto. Un dettaglio non trascurabile: l’eccessiva focalizzazione sulle meccanice del Bullet Time ha denotato un netto aumento della percentuale di morti violente con conseguente ricorso all’opzione quicksave, da parte di chi volesse ostinarsi a giocare Doom alla vecchia maniera. Disgraziatamente, le magagne strutturali sopraelencate eclissano senza appello le seppur lodevoli limature al gameplay implementate su misura per RoE. Facendo tesoro dell’esperienza di Doom 3 e non potendo più contare sugli abusati effetti a sorpresa del predecessore, Nerve ha cercato di diversificare le ondate di nemici allo scopo di renderle meno prevedibili, sfrondando di parecchio i trenini di cherubs e trite e contenendo almeno in parte il fenomeno del “mostro nell’armadio” che affliggevano la release precedente. In egual misura, il lavoro effettuato sui livelli si è tradotto in una maggiore scorrevolezza ed in un minore ricorso al backtracking, anche se un appunto va fatto ancora alla palese insensatezza architettonica che affligge tutte le sezioni del centro di ricerca UAC. Gli scontri con i diversi boss, infine, il pregio di imporre il sano utilizzo di un po’ di materia grigia oltre a quello di tutte le feature speciali.

Spiacenti, niente coperchi neanche questa volta
Se Doom 3 avesse proposto, ai suoi tempi, le meccaniche di questa espansione, quella che si sarebbe scritta oggi sarebbe stata una storia probabilmente diversa. Ora come ora, Resurrection of Evil ha solamente il gusto di un’errata corrige che tenta di porre rimedio tardivamente agli errori dell’originale. Parlando di innovazioni, la loro qualità non è sufficiente a giustificarne l’acquisto da parte di chi non ha gradito D3, mentre la loro quantità potrebbe risultare indigesta a chi invece lo ha apprezzato.
Ai posteri…
tenorsax1
00venerdì 29 aprile 2005 22:26
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