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L'IDENTITA' IN RETE: ASPETTI PSICOLOGICI E CORPOREI

Ultimo Aggiornamento: 21/11/2007 23:32
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21/11/2007 23:31

Dott.ssa Giulia Malavasi - Prof.ssa Anna Oliverio Ferraris
Università degli Studi di Roma “ La Sapienza “

Relazione presentata al Convegno "Psicologia e psicologi in rete: ipotesi e prospettive" - 23/24 febbraio 2002 - on line


LA FRAMMENTAZIONE DEL SE’

Non molto tempo addietro si attribuiva un notevole valore alla stabilità a livello sociale, ribadita a livello culturale. Rigide divisioni tra i due sessi, occupazioni ripetitive, aspettativa di svolgere un solo tipo di lavoro o di vivere in un’unica città per l’intera esistenza, tutto questo conferiva alla solidità un ruolo centrale nelle definizioni di buona salute.
Poi dall’America grazie anche allo sviluppo tecnologico, alla facilità di viaggiare, al mito del ‘forever young’, alla facilità di un guadagno realizzato in brevissimo tempo senza bisogno di studiare, in una parola allo yuppismo dilagante, si è arrivati alla concezione di un io forte, che si poteva autodeterminare. Ognuno di noi aveva il mondo in mano, bastava avere un minimo di iniziativa, un ‘progetto’ di vita da perseguire, una scorza fatta da una notevole dose di competitività e da un bel po’ di pelo sullo stomaco.



Le ideologie politiche erano sfumate, i compromessi un prezzo obbligatorio da pagare per poter ‘arrivare’. Niente era diventato impossibile: i miti degli anni ottanta, novanta (attori, cantanti, calciatori, imprenditori, giocatori di borsa) potevano essere raggiungibili.

Oggi anche questo punto di vista tende a sfumare.

Il numero davvero preoccupante di persone depresse, l’uso massiccio di psicofarmaci usati anche dagli adolescenti, ci fanno capire che qualcosa non va. Questo mito dell’identità forte che si autoafferma tende a scemare con una velocità sostenuta, ci si scopre al contrario più fragili di quanto non sospettassimo, i casi di ‘frammentazione dell’identità’ si moltiplicano.

C’è davvero la necessità di ‘avere un progetto’? Questo è segno della nostra salute psicologica? E se non ce la facessimo a raggiungere quell’alta vetta che ci siamo ripromessi di raggiungere, vorrebbe dire che siamo dei miseri falliti?

Cosa vuol dire ‘stare bene’?

Sembra che una risposta a questi interrogativi sia non più nella stabilità o nella ricerca forsennata di arrivare a una meta, ma nella fluidità. Ciò che conta oggi è la capacità di adattamento e cambiamento nei confronti di nuove professioni e nuove carriere, nuovi ruoli sessuali e nuove tecnologie.

In Flexible Bodies, l’antropologa Emily Martin sostiene che il linguaggio del sistema immunitario ci fornisce le metafore del sé e dei suoi confini. Nel passato il sistema immunitario veniva descritto come una fortezza privata, un muro compatto, solido, che proteggeva l’interno dall’esterno. Oggi si preferisce parlare di flessibilità e di permeabilità del sistema immunitario. Soltanto ciò che è adattabile risulta sano. [1]

Nella sua analisi della cultura delle flessibilità, la Martin non si sofferma sulle comunità virtuali, ma queste rappresentano ottimi esempi a sostegno di quanto scrive. In questi ambienti si gioca esplicitamente ai ruoli (come nei MUD), oppure si costituiscono più ingegnosamente delle identità online. Gli adulti sono in grado di apprendere un tipo di esistenza multipla e fluida - come i bambini.

In “Una vita sullo schermo” [2] Sherry Turkle ci racconta di un gruppo di discussione di The WELL (un sito di IRC) sulle personae online.

I partecipanti concordavano sul fatto che le identità virtuali costituissero oggetti evocativi con cui poter pensare al sé. Per molti, l’esperienza nell’ambiente virtuale li costringeva a prestare maggiore attenzione a certi aspetti che si davano scontati per la realtà.

Ciò che più caratterizzava la discussione di The WELL sulle personalità online, era il fatto che molti dei partecipanti esprimevano l’opinione che fosse stata quella loro esistenza su The WELL ad averli introdotti ai molti sé interiori. Il sentimento che la vita online potrebbe fornire un’esperienza diversa da sé è stato confermato da un partecipante, che si descriveva come un uomo le cui capacità conversazionali da adulto risultavano danneggiate dall’essere stato balbuziente da bambino. Solo online è riuscito a vivere l’esperienza di partecipare al flusso della conversazione:

“Sento che il mio personaggio online differisce alquanto dalla mia persona offline e, per molti versi, il primo corrisponde in misura maggiore al vero me stesso. Provo molta libertà di parole in quest’ambito. Durante l’adolescenza ho avuto un periodo di balbuzie. Non riuscivo a pronunciare una sola parola senza balbettare, e allora parlavo solamente se assolutamente necessario. Ho affrontato questo problema quando avevo circa vent’anni e ora non si nota neppure; però, a 37 anni sono ancora molto timido nella conversazione. Mi sento molto più a mio agio ad ascoltare che a parlare. E quando parlo, di solito mi sento fuori sincronia: involontariamente mi intrometto nel discorso di altri, perdo l’attenzione di chi mi ascolta, o mi rivolgo a tutti e a nessuno, piuttosto che a qualcuno in particolare. Non ho imparato quella dinamica della conversazione che la maggior parte delle persone dà per scontata, credo. Qui, invece, è tutto completamente diverso: ho il senso dei flussi dei discorsi, ho il tempo di calibrare la mia risposta, non mi devo preoccupare dell’equilibrio nello spazio della conversazione. Un’esperienza meravigliosamente liberatoria.” [3].

Quando, verso la metà del ventesimo secolo, l’America divenne il centro delle filosofie psicoanalitiche, la nozione di un ego forte e deciso divenne l’ortodossia della psicoanalisi.

La psicologia contemporanea si sta confrontando con ciò che è stato trascurato dalle teorie unitarie del sé, grazie ai sé frammentari presentati dai pazienti e alle teorie che enfatizzano il soggetto decentrato. Ma ora occorre chiedersi: “Che cos’è il sé quando divide il proprio agire tra gli ‘altri’ sé che lo costituiscono?”.

La Turkle suggerisce che le persone affette da disturbi di dissociazione post-traumatica devono confrontarsi con questioni simili: le stesse questioni con cui invece giocano coloro che partecipano alle comunità virtuali.

Le idee sulla mente possono costituire una presenza culturale vitale, se sono sostenute da oggetti evocativi con cui confrontarsi. Tali oggetti non devono necessariamente essere materiali. Ad esempio sogni e lapsus costituiscono oggetti con cui confrontarsi, con cui poter pensare. Si può lavorare con i sogni e con i lapsus, propri o altrui. Oggi la concezione di identità come molteplicità si diffonde anche sulla spinta di una nuova pratica di identità come molteplicità nella vita online. Le personae virtuali rappresentano oggetti con cui pensare. Quando si adotta un personaggio online, alcuni provano uno sgradevole senso di frammentarietà. Altri un senso di sollievo. Alcuni sperimentano la possibilità di scoprire sé stessi, addirittura di trasformazione.

In questo e altri modi, molti stanno sperimentando la molteplicità come mai prima d’ora.

La Turkle afferma che le numerose manifestazioni della molteplicità nella nostra cultura, compresa l’adozione di diverse personalità, stanno contribuendo alla riconsiderazione della tradizionale concezione unitaria dell’identità.

Ad un estremo, il sé unitario conserva la sua unità mediante la repressione di tutto quello che gli è estraneo. Censurate in questo modo, le parti illegittime del sé risultano inaccessibili. Ovviamente un simile modello potrebbe funzionare in condizioni ottimali all’interno di una inflessibile struttura sociale con ruoli e regole definite con chiarezza. All’altro estremo, troviamo un paziente affetto da disturbi di personalità multipla, la cui molteplicità esiste nel contesto di una inflessibilità ugualmente repressiva. Le parti del sé non comunicano con facilità. La comunicazione risulta estremamente simbolica; una personalità deve parlare con l’altra. In effetti il termine “personalità multipla” appare fuorviante, perché le diverse parti del sé non costituiscono delle personalità complete. Sono invece frammenti separati, scissi.

“Ma se il disturbo, quello della personalità multipla, è espressione di pareti solide tra i sé (che blocchino i segreti protetti da ciascuno di essi), allora il suo studio può iniziare a fornire modi per pensare a sé che siano sani pur senza risultare unitari, con una fluidità d’accesso tra i vari aspetti .

Così, oltre alle ipotesi entrambe estreme del sé unitario e dei disturbi di personalità multipla, possiamo concepire un sé flessibile. Un sé flessibile che presenti un’essenza non unitaria, come pure parti stabili. In cui sia facile passare ciclicamente dall’uno all’altro dei suoi diversi aspetti, che mutano in continuazione attraverso la costante comunicazione reciproca…….

…. Quel che maggiormente caratterizza il modello di un sé flessibile consiste nel fatto che le linee di comunicazione tra i suoi vari aspetti rimangono aperte. La comunicazione aperta incoraggia un atteggiamento di rispetto nei confronti dei molti che vivono dentro di noi e dei molti che vivono dentro gli altri. [2] (pagg. 393-394)

Ognuno di noi è incompleto, a suo modo. L’ambiente virtuale può fornirci la sicurezza necessaria per poter manifestare quello che ci manca, in modo da iniziare ad accettarci così come siamo. Il virtuale non deve necessariamente rappresentare una prigione. Può essere la zattera, la scala transitoria, la moratoria, situazioni che vanno abbandonate dopo aver raggiunto una maggiore libertà.

Dunque la simulazione può aiutarci a realizzare la visione di una identità multipla ma integrata, la cui flessibilità, duttilità, e capacità di felicità provengano dalla possibilità di accedere ai nostri molti sé.

La gente può perdersi nei mondi virtuali. Alcuni sono tentati di pensare che la vita nel cyberspazio sia insignificante, come una fuga o una distrazione insensata. Non è così. Le esperienze che viviamo al suo interno fanno parte di un gioco molto serio. Senza una comprensione dei molti sé che si esprimono nel virtuale, non saremo in grado di usare le nostre esperienze in quell’ambito per arricchire il reale. Se coltiviamo la consapevolezza di quel che si trova dietro i personaggi dello schermo, avremo maggiore possibilità di riuscire ad utilizzare le esperienze virtuali per una trasformazione personale.

Ora, se è parsa interessante e piena di fascino la teoria di Sherry Turkle sul “Sé fluttuante” e l’approfondimento delle molteplici identità attraverso il virtuale, non sembra possibile non fissare l’attenzione sul problema di se e come la propria immagine corporea subisca modificazioni quando con il virtuale in qualche modo si interagisce.
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